«Hai visto ieri sera Benigni a Sanremo?» mi chiede un amico. «No» rispondo. «Ah, eri malato?» sinforma premuroso. «No», è che non guardo Sanremo». «Allora sei malato» mi dice serio.
Credo di essere sano, non sono uno snob e sono anni ormai che non guardo il Festival. Sarà pure un «evento», e già a me quando sento questa parola mi viene voglia di mettere mano alla pistola che non ho, ma è sempre la stessa pappa: due vallette decorative, un presentatore interscambiabile, canzoni per lo più brutte, ospitate di cui si farebbe volentieri a meno (una volta cera persino Mike Tyson, «una bella persona» lo definì lintervistatore di turno, e ormai con la lingua italiana si può dire tutto perché tanto non si vuol dire più niente), una durata sproporzionata, il conformismo irritante per cui sono tutti bravi, ci vuole sempre un bellapplauso e guardate che bel pubblico cè stasera
Io non so se Sanremo sia, come dice qualcuno, lautobiografia di una nazione. Se è così, pazienza, ma non è la mia. È da decenni che sono un esule in patria, ci ho fatto labitudine e alla fine è giusto così. Dico solo che se per farci amare Fratelli dItalia lo deve cantare, commuovendosi, Benigni (ma quandè che non si commuove, Benigni? Da Dante a Berlinguer, passando per Oscar Wilde e la Carrà ha sempre una lacrima sul viso), cè qualcosa che non funziona. A me piaceva Totò perché faceva Totò in pubblico e il principe de Curtis in privato, ma diffido del comico coscienza critica del Paese. Sarà anche vero che la politica è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai politici di professione, ma qui, direbbe il principe di cui sopra, «qui si abusa». Se l«evento» non si chiamasse Sanremo, avrebbe altrettanto successo? Il varietà con canzoni ha certo una sua nicchia, e infatti siamo pieni di simil-Sanremo travestiti: revival, gare canore, ospitate, non è la stessa cosa? E allora, di cosa stiamo parlando?
Capisco il «nazional-popolare», non mi adeguo, ma capisco. Capisco anche che siamo un popolo di melomani, che cuore fa rima con amore, che la bellezza ha le sue ragioni che il merito non conosce, capisco pure che a ogni Sanremo ci sia un salvatore della patria canora pronto a immolarsi per essa. Cadde sul campo Panariello, trionfò Antonella Clerici, morì e più volte risorse Pippo Baudo, combatté con alterna fortuna Paolo Bonolis, una volta Fabio Fazio portò sul palcoscenico persino un premio Nobel e, insomma, tutto quanto fa spettacolo. Fa spettacolo? A me annoia, ma sarà colpa mia e quindi non bisogna farci caso. Non è che io, al posto di guardare il Festival, la sera legga Kant. Non sono Umberto Eco. In concomitanza con la serata inaugurale, davano su un canale privato un vecchio film in bianco e nero anni Quaranta e quando cè una cosa del genere non so resistere: difficilmente troverai una sbavatura, nella trama e negli interpreti, quellalto artigianato come ormai non se ne fa più. Due ore dincanto. Vuoi mettere? Ieri sera, invece, è stata la volta di un romanzo giallo ambientato nella Berlino del 1946... Come si vede, ho gusti semplici, è lenfasi che dà mi dà alla testa: lAuditel, lo share, il voto elettronico (cè ancora?), i garofani, gli «amori», i «tesoro», «un bellapplauso», «sei grande», il rituale della standing ovation e degli smoking in affitto, i vip, i simil-vip, i finti vip, le bellone, le matrone, le tardone, la dirigenza Rai al gran completo sempre inquadrata e sempre divertita. Gusti semplici anche i loro? Forse troppo.
E però, direte voi, Luca&Paolo, Belen, leterno Gianni Morandi, la Canalis... Ma scusate, non cè sit-com, pubblicità e «iene» varie dove i primi due non compaiano, Belen ha appena fatto un cine-panettone e passa da una pubblicità telefonica a unaltra, lex ragazzo di Monghidoro labbiamo visto persino in mutande...
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