Un operaio contro la mafia

Paolo Scotti

da Roma

Le storie di mafia non sono certo una novità, nel panorama della fiction televisiva. Ma è un caso a suo modo anomalo quello di A voce alta, la «fiction di mafia» in onda, per la regia di Vincenzo Verdecchi, lunedì 5 e martedì 6 su Raiuno. «Anomalo per due motivi - nota lo stesso regista - perché si tratta di una storia vera. E perché, a differenza di film tipo La Piovra, non offre inseguimenti o ammazzamenti, ma la semplice storia di un uomo qualunque, un operaio sindacalista che, per battersi contro le infiltrazioni mafiose nei cantieri navali di Palermo, a metà degli anni Ottanta, prima tenne testa a chi (familiari compresi) gli consigliava di lasciar correre; e poi chiese aiuto a due politici della commissione antimafia. Fino ad aver ragione dei suoi persecutori».
La storia vera è quella di Gioacchino Basile (che in A voce alta è interpretato, con nome diverso, da Ugo Dighero) e dei politici Ottaviano Del Turco e Alfredo Mantovano; «un film molto fedele alla realtà - osserva lo stesso Mantovano - per una storia da cui, una volta tanto, la mafia è uscita sconfitta e in cui il Parlamento ha applicato la legge che gli consentiva di procedere con una sua indagine, non alternativa ma sussidiaria, a quella giudiziaria». Presente alla conferenza stampa del film, l’autentico protagonista ha definito A voce alta «un magnifico prodotto. Anche se nella realtà io soffrii sedici anni di intimidazioni anche più dure». Ancora oggi Gioacchino Basile è convinto, però, che la sua storia non sia conclusa, «i mafiosi che io denunciai sono gli stessi implicati nei casi Dalla Chiesa, Chinnici, Falcone e Borsellino».

E afferma di avere comunicato tramite un esposto alla procura di Palermo alcuni suoi precisi sospetti, solo pochi giorni prima che Borsellino venisse ucciso. Spingendosi fino a concludere: «Sono convinto che il movente della strage di via D’Amelio sia dentro alla mia storia. Sono anni che lo dico. Ma parlo al vento».

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