Ora i ricercatori dovranno cercare di «pedalare»

Caro Granzotto, ho molto apprezzato il suo «Angolo» sui ricercatori e l’aria fritta. Sono stato un ricercatore al Cnen (diventato Enea) dal 1960 al 1985 quando, nauseato dallo scempio effettuato dal sindacato in questo ente, sono passato come docente all’Università di Bologna. Qui sono rimasto per più di vent’anni, fino alla pensione. Poiché conosco bene la realtà sia degli enti di Ricerca che dell’Università, ritengo la riforma Gelmini un buon inizio verso... il ritorno al passato. A mio avviso il ricercatore deve avere la carriera parallela a quella del docente universitario e non essere il terzo gradino della docenza. Dopo alcuni anni «di prova» presso un’università (i sei anni previsti dalla riforma Gelmini mi sembrano troppi) il giovane ricercatore o vince un concorso di docente universitario o è assunto in un ente di Ricerca (sarebbe ora di rivitalizzare tali enti!) oppure trova altre collocazioni. Nel caso acceda all’Università, secondo me non gli si deve permettere di fare al 100 per cento la ricerca che vuole, ma deve contribuire anche alla ricerca applicata, utile al Paese e al suo ateneo. Nel 1984 andai a visitare il prestigioso Centro di Ricerca danese, Riso. Mi dissero che lo Stato passava loro l’80 per cento dei fondi complessivi per il mantenimento, stipendi compresi. Il restante 20 per cento dovevano procurarselo sgomitando per ottenere finanziamenti internazionali o per ricerca a favore dell’industria danese. Altro che guardare il cielo in estasi, come fanno certi nostri inamovibili docenti sprofondati in comode poltrone. Pedalare! Cari colleghi, avete prodotto fin troppa aria fritta!
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Un postificio, caro professore. Ecco a cosa s’era ridotta la ricerca universitaria. All’invito di «Avanti c’è posto!» dapprima è stato esageratamente dilatato il numero dei ricercatori (e questo nonostante a fare ricerca, negli atenei, dovrebbero principalmente essere i docenti). Poi si è rimossa la ragion d’essere del ricercatore consentendogli di occuparsi d’altro e infine lo si è fatto passare al rango di docente assicurandogli così l’agognato posto fisso. Non tutti, certo: qualcuno ha seguitato a fare ricerca seria, «applicata»; qualcun’altro ricerca in proprio o stravagante (come quella che ho ricordato, sui tempi e i modi delle emissioni di gas intestinali in ambito familiare). Andazzo infernale che non solo ha alimentato il parassitismo di Stato, ma quel che è ancora peggio ha inferto un duro colpo alla istruzione universitaria, la stessa che dovrebbe formare la classe dirigente del domani (e dunque «costruire» il futuro). L’arruolamento di stuoli di ricercatori è infatti causa ed effetto del proliferare delle sedi universitarie distaccate (320), delle materie d’insegnamento (170mila) e dei corsi di laurea (2.244). E si sa che il troppo è nemico del meglio. Un troppo, poi, riposto per una buona metà in mani che vogliamo dire, per amor di patria, inesperte. Possibile che nessuno si sia chiesto se non siano state anche tutte quelle lezioni, tutti quegli esami affidati a giovani ricercatori e «cultori della materia» (nell’inventarci i ruoli, siamo imbattibili. Una volta escogitato il nome d’una competenza, parte la corsa al posto e ai suoi privilegi) ad aver fatto precipitare gli studi universitari ai livelli del quinto mondo? Pedalare, lei dice, caro professore. E siccome il clima pare proprio stia cambiando chi vorrà meritarsi o conservarsi l’occupazione, a pedalare sarà tenuto. Mettendoci muscoli e fiato. E non sarà il cicloturismo alla Romano Prodi, tutti insieme alla meta.

Ma bisognerà mettercela tutta perché ineluttabilmente, come è regola della vita, qualcuno taglierà il traguardo, qualcuno rimarrà indietro (e sarà inutile, per questi ultimi, arrampicarsi sui tetti per rivendicare il diritto di arrivare primi anche se schiappe).
Paolo Granzotto

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