RomaLa notizia è filtrata alle cinque della sera: «Walter Veltroni si è dimesso da segretario del Pd». Nemmeno García Lorca avrebbe immaginato un addio così preciso nellora della muerte. Ma non è stata una decisione improvvisa, piuttosto unagonia, quella che ha portato Veltroni a comunicare le dimissioni al coordinamento del partito che aveva fondato poco più di un anno fa. Un tormento di mesi, cresciuto lungo le cinque sconfitte elettorali su cinque nelle ultime sfide politiche. Diventato troppo grande nelle ultime 24 ore. Da quando cioè lo spoglio delle schede in Sardegna aveva iniziato a dire che il vincitore designato era Ugo Cappellacci, lo sconfitto Renato Soru, che la regione era persa e il Partito democratico distrutto nellultima battaglia che doveva segnarne il rilancio.
E allora bisogna iniziare dalla sera a parlare delle ultime ore di Veltroni segretario. La sera di lunedì. Da quando, si racconta, allimprovviso il leader spegne il telefonino, se ne va a casa, non si fa più sentire. Il silenzio che segna lora delle decisioni angosciose, definitive.
La giornata del sogno frantumato si chiude con unuscita di scena, ma al risveglio il fallimento diventa enorme, totale. La stampa è impietosa. La disfatta è ufficiale dalle prime ore dellalba, con quelle percentuali ancora più pesanti di qualche ora prima - 52 a 43 - ma i giornali vedono oltre, e in edicola segnalano già tutta la gravità, per il Pd, di questo smacco. Si racconta che una lettura ha fatto correre i brividi sulla schiena a Veltroni. Leditoriale di Repubblica, giornale tuttaltro che ostile, con una cronaca di Massimo Giannini talmente lucida da spazzare via ogni attenuante: «Per il futuro del Pd, la sconfitta in Sardegna rischia di suonare come doppia campana a morto». Ma quei rintocchi Veltroni deve averli sentiti già dalla sera, dallora del silenzio. E comunque a quel punto, nelle prime ore del mattino, la decisione è presa.
Alle 10.30 è convocato il coordinamento del Pd nella sede di via SantAndrea delle Fratte 16. Ma prima Veltroni chiama due persone: Enrico Franceschini e Piero Fassino. A loro affida la sua scelta, prima di affrontare la riunione. Con Goffredo Bettini, sua spalla destra, gli scambi di opinione erano già avvenuti.
Così Veltroni entra dal portone di via SantAndrea delle Fratte sapendo già cosa deve dire. Sa che troverà musi lunghi al coordinamento e così è, non potrebbe essere altrimenti. Le percentuali della Sardegna suonano come le campane a morto di Repubblica nella testa di tutti i presenti. Con Fassino, Franceschini e Bettini, ci sono Pier Luigi Bersani, Enrico Letta, Rosy Bindi, Andrea Orlando, Antonello Soro e Anna Finocchiaro.
Da questo punto in poi tutto quello che arriva è filtrato attraverso le porte chiuse. Ufficialmente l«ordine del giorno» prevede lanalisi del voto in Sardegna, ma Veltroni ha bisogno di poco tempo: il suo mandato è «a disposizione». Il coordinamento, unanime, dice no. La fiducia è confermata, da tutti. Fuori, anche gli alleati meno vicini in questo momento gli chiedono di rimanere: Francesco Rutelli, Massimo Cacciari. Oltre le porte chiuse, Veltroni parla e dice la verità: forse sono un problema, «mi faccio da parte», se il Pd continua a perdere è perché cè un continuo tentativo di differenziarsi, smarcarsi, contestare la linea assunta. Una lotta interna logorante come uno stillicidio: «Basta farsi del male. Io ho le mie responsabilità, ma pago anche per altri».
Persino Bersani conferma la sua lealtà in vista dei prossimi impegni elettorali. Il coordinamento si scioglie per una «pausa di riflessione». La chiede Veltroni. Ma per lui è lo spazio delle ultime telefonate. Una è per il Quirinale: sente Giorgio Napolitano. Ma chiama anche Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio. Non sente Massimo DAlema.
Il coordinamento si riunisce ancora. Veltroni comunica le sue dimissioni irrevocabili. Dalle cinque in poi il suo telefono squilla in continuazione, lo chiamano anche Fini, Prodi, Casini. «Il progetto del Pd non è fallito», riesce a dire Rosy Bindi. Ci sono molti grazie.
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