Cultura e Spettacoli

ORWELL I veri dittatori? Sono gli editori

Tradotti gli articoli scritti per l’«Observer» negli anni Quaranta: note politiche, corrispondenze dal fronte, recensioni e stroncature

Nel 1942 David Astor, proprietario dell’Observer, decise di svecchiare una testata allora spenta in un generico sentimentalismo liberal. Per prima cosa licenziò il direttore J.L. Garvin e si mise al suo posto. Per seconda immaginò una rubrica di attualità, chiamata Forum, e chiese a George Orwell di tenerla a battesimo. Orwell accettò e il 22 febbraio di quell’anno uscì il suo primo pezzo, «India Next», ovvero il riconoscimento della giustezza dell’indipendenza indiana e l’abbandono, in pratica, dell’idea dell’Inghilterra come potenza coloniale. Astor aveva trovato la sua linea politica, Orwell il suo giornale, e solo la morte dello scrittore pose fine a un connubio che andava al di là del semplice rapporto professionale o di idee: già malato, Orwell andrà a riposarsi sull’isola di Jura, dove Astor aveva una casa, e scriverà lì 1984; sarà questi a procurargli tutti i documenti necessari per il matrimonio con Sonia Brownell, celebrato davanti a un letto dell’University College Hospital di Londra, e a farlo infine seppellire al cimitero di Sutton Courtenay nell’Oxfordshire.
Il centesimo e ultimo articolo apparve nel febbraio del 1949, sette anni esatti da quell’esordio polemico e significativo, un pugno di mesi prima della scomparsa del suo autore: una recensione-stroncatura del saggio The Great Tradition di F.R. Leavis con tutti gli elementi dello stile giornalistico orwelliano, facilità di lettura, stile quasi colloquiale, molta ironia, concisione e conoscenza della materia trattata.
Adesso che Gli anni dell’«Observer» (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 280, euro 15) appare in edizione italiana (con una copertina per la verità incongrua che lo vede davanti a un microfono della BBC...) il lettore ha la possibilità di confrontarsi con un materiale vario e composito: dalla guerra civile spagnola alla storia di Eton, dalle corrispondenze dal fronte tedesco al tema dell’antisemitismo, dalla ricostruzione postbellica alla questione dei profughi e dei deportati agli interventi di critica letteraria (su Conrad, Dostoevskij, Stevenson, Mansfield) la sua prosa non è mai banale, la partecipazione al soggetto trattato sempre viva e spesso appassionata. Orwell scriveva i suoi articoli direttamente a macchina senza che ci fosse un errore o una cancellatura. Per spiegarne l’apparente facilità, il suo amico George Woodcock la legò al suo modo d’essere: «Gli piaceva esporre le sue idee in lunghi monologhi davanti a una tazza di tè forte e fumando sigarette di tabacco nero che arrotolava personalmente. Più tardi avremmo visto apparire quelle riflessioni stampate sotto forma di articolo».
C’è un aggettivo che ricorre spesso in questa raccolta, che non ha un equivalente preciso in italiano, ma che in qualche modo connota la sua personalità. «Decent» non significa solo onesto, o corretto, o decoroso, o per bene, ma è un insieme di queste cose, una pratica di vita, un modo di porsi i problemi e una volontà di cercare di risolverli, una difesa della dignità e un rifiuto della sopraffazione, la conoscenza delle debolezze umane e la difficoltà di venirne a capo. «Se guardi dentro di te chi vedi, Don Chisciotte o Sancho Panza? Quasi sempre sia l’uno sia l’altro». Ciò spiega perché negli scritti degli anni di guerra, a fianco dell’ostinata convinzione di essere nel giusto non ci sarà mai spazio per l’incitazione all’odio ideologico, al regolamento di conti verso il nemico sconfitto. «Camminare attraverso le città distrutte della Germania vuol dire dubitare sul proseguimento della civiltà. Non ci sarebbe alcun vantaggio nel trasformare questo Paese in una sinistra periferia».
Con la conoscenza di prima mano che gli veniva dalla guerra di Spagna, Orwell era ben consapevole della fragilità di un pensiero e di una pratica socialista autonomi rispetto all’appeal rappresentato dal comunismo come ideologia e come realtà. Contemporaneamente, il rifiuto di un liberal-capitalismo che sullo sfruttamento delle colonie aveva costruito la fortuna dell’Inghilterra lo metteva nella difficile condizione di non avere un punto di riferimento preciso, non puramente teorico e/o ideale. «Il capitalismo porta alle code per i sussidi di disoccupazione, allo scontro per i mercati e alla guerra. Il collettivismo porta ai campi di concentramento, all’adorazione del capo e alla guerra» scriverà recensendo The Road to Serfdorm di Hayek e The Mirror of the Past di Zilliacus. «Non c’è via d’uscita a meno che un’economia pianificata venga in qualche modo combinata con la libertà intellettuale, il che può avvenire se i concetti di giusto e sbagliato sono restaurati in politica. Entrambi gli autori ne sono consapevoli, più o meno. Ma non potendo mostrarci un percorso praticabile perché ciò avvenga, l’effetto combinato dei loro libri è deprimente».
La «depressione» nasceva anche dal fatto che in quegli stessi anni Orwell sta scrivendo La fattoria degli animali e sconta sulla propria pelle come «il giusto e sbagliato» siano in politica valori relativi. L’editore di sinistra Gollancz gli respinge il romanzo perché troppo ostile al comunismo, il cattolico-conservatore T.S. Eliot spinge la casa editrice Faber a dare parere negativo per il motivo esattamente contrario... Ma ciò che lo colpisce maggiormente è il rifiuto di Jonathan Cape dovuto a un funzionario del ministero dell’Informazione, preoccupato che quella «favola» metta troppo in cattiva luce l’Urss, nel 1944 ancora alleato cruciale dell’Inghilterra. «La scelta dei maiali come élite di governo offenderà molta gente e particolarmente chiunque sia un po’ suscettibile, come i russi indubbiamente sono» si giustificò Cape. In margine alla lettera Orwell annotò una sola parola: «balle», ma il sabato successivo, nel recensire sull’Observer il libro The Sociology of Literary Taste di L.L. Schucking, trovò modo di concordare sulle «arbitrarie decisioni degli editori» stigmatizzate dall’autore. «In effetti, il padrone è tornato ancora, ma è un padrone enormemente meno civile, meno tollerante, meno individuale e più potente che in passato. Quello feudale probabilmente era meno duro di un Goebbels o del ministero dell’Informazione e il suo gusto letterario di certo migliore». Ironia della storia, Peter Smollett, il consigliere di Cape al Ministero, risulterà più tardi una spia al servizio di Mosca...
Paradossalmente, sull’Observer Orwell ebbe più difficoltà a occuparsi di letteratura che non a fare il corrispondente di guerra o l’analista politico. Nonostante ci fosse il suo amico Cyril Connolly a mandare avanti le pagine dei libri, direttore letterario era Ivor Brown, terrorizzato dal radicalismo orwelliano. Al primo intoppo, sotto forma di bocciatura, Orwell scrisse a Connolly: «Non posso scrivere per delle pagine che non permettono un minimo di onestà». Ci volle un anno e un paziente lavoro di ricucitura dello stesso Astor perché la sua firma riapparisse. Di Connolly, Orwell recensì fra l’altro The unquiet Grave. A Word Cycle, ed è interessante vedere la differenza fra il pensiero di un tipico esponente dell’Inghilterra individualista, conservatrice e aristocratica e il suo fratello ribelle che aveva ripudiato il college e l’impero. «Questo libro è il grido di disperazione di chi, vivendo di rendita, sente che non ha diritto di esistere, ma sente anche di essere un animale più fine rispetto al proletario. Il suo errore consiste nel ritenere che una società collettivista distruggerà l’individualità umana. Il comunista medio inglese, il “compagno di strada”, fa lo stesso e agita la sua integrità intellettuale in modo masochistico. Ragionano allo stesso modo: gli è stato detto che il fine del Socialismo o del Comunismo è rendere gli uomini simili a insetti. Sanno di essere dei privilegiati e che se resistono al socialismo lo fanno per motivazioni dubbie, ma non vanno più in profondità. Non si rendono conto che i cosiddetti sistemi collettivisti attualmente esistenti cercano di spazzare via l’individuo perché non sono realmente collettivisti, né tantomeno egalitari, ma in realtà una menzogna che maschera una nuova classe dirigente. Se uno può vedere tutto questo, può sfidare l’insetto-uomo con la coscienza tranquilla. Ma certamente è più duro vederlo, o dirlo a voce alta, se ci si porta sulle spalle il fardello di un benessere non sudato».
Molti dei libri recensiti in Gli anni dell’«Observer» non ce l’hanno fatta a reggere al tempo, così come le analisi politiche e sociali risentono del clima di un’epoca che vide l’Inghilterra passare da una leadership conservatrice al «pensionamento» di Churchill, alla «guerra fredda» al laburismo. Eppure il filo conduttore di un pensiero attento alle esigenze dei più deboli, al riconoscimento delle indipendenze nazionali, a una redistribuzione equa della ricchezza e alla eliminazione dei privilegi corre un po’ per tutti gli articoli. Raramente ci troviamo di fronte a scritti “alimentari” e nel suo giornalismo c’è molto del particolare tipo di romanziere che Orwell fu: «Io non sono un vero romanziere.

Una difficoltà che non ho mai risolto è quella di avere una grande quantità di esperienze di cui voglio appassionatamente scrivere e che non ho modo di usare se non camuffandole da romanzo». E però: «Non potrei lavorare a un libro, e neppure a un lungo articolo, se questa non fosse anche un’esperienza estetica. Io non posso, né voglio, abbandonare la visione del mondo acquisita durante l’infanzia».

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