Otto bimbi s’impiccano per imitare Saddam

Soldatini, playstation, palloni. Ci sono cose nella camera dei bambini che non ci dovrebbero essere. Un cappio per esempio, che ondeggia nell’ombra, sulle pareti di casa. Sultan, dodici anni, saudita, lo hanno trovato appeso ad una trave del soffitto; Sergio, dieci anni, texano, ad un lenzuolo attaccato al lettino castello; Rakim, nove anni, pachistano, a una corda appesa al ventilatore fissato sul tetto. Morti non si capisce perché, non si capisce per cosa, uccisi dalla tv, da quelle immagini di morte, angoscianti, martellanti, ossessive, che hanno raccontato ventiquattr’ore su ventiquattro, su tutti gli schermi del mondo, l’impiccagione di Saddam Hussein. Otto bambini, una strage, otto morti senza motivo, di quelli che fanno ancora più male. Edward Bischof, psicologo dell'infanzia, una spiegazione ce l’ha: dice che i ragazzini amano sperimentare le cose che vedono in tv senza rendersi conto dei rischi. Una logica feroce e infantile dove si fa fatica a trovare consolazione perché non ce n’è. Si somigliano tutti i bambini anche quando giocano con la morte.
A ritrovare il corpicino di Sultan è stato il fratello maggiore, al rientro dalla preghiera in moschea: per raggiungere il cappio, lui così piccino, aveva usato una sedia della cucina. A scoprire quello di Mubashar Ali, nove anni, è stata invece la sorellina. I genitori stavano guardando il filmato dell'esecuzione in tv, i due bambini giocavano nella stanza accanto, poi lei è scappata via e quando è tornata lo ha trovato con gli occhi sbarrati. Voleva farle una sorpresa, di quelle che fanno paura. Di Sergio Pelico raccontano fosse un bambino vivace e curioso, che non aveva motivi di essere depresso, dopo aver visto le immagini di quel cappio aveva fatto un sacco di domande ma tutto sembrava finito lì. Per vedere l’effetto che fa ha aspettato che mamma Sara andasse al lavoro, poi il buio. Così come l’ultimo della serie, Alisan Akti, dodici anni, di Sutluce, villaggio della Turchia sud-orientale, a maggioranza curda. Anche lui ha aspettato la sera per seminare i genitori, ha scelto una stanza defilata per appendere un cappio al soffitto e lasciarsi dondolare. Anche lui non aveva problemi, un bambino sereno e simpatico, dice papà, «ma la sua mente infantile era rimasta impressionata dall'esecuzione del rais: aveva cominciato a fare un sacco di domande, sempre più cupo». Poi di colpo aveva smesso di chiedere. «Dovrebbero eliminare quelle immagini dagli schermi» dice adesso.
Il domani spalancato davanti ce l’aveva Mohammed al Zammari, tredici anni, yemenita, voleva giocare all’impiccato con gli amichetti, a un certo punto non è riuscito più a divincolarsi dalla corda. Poi una quindicenne indiana uccisa dal desiderio, ha lasciato scritto, di «provare lo stesso dolore di Saddam», e un dodicenne algerino che voleva recitare l’esecuzione per i compagni di classe. Hanno fatto solo in tempo a respirare l’inizio dell'anno nuovo.
Non si può uccidere per niente, non si può morire per nulla.

Lo sapeva anche il tredicenne yemenita che ha deciso di appendere la sua vita ad un ramo di un albero per far ridere i suoi amici. Si chiamava Saddam Hussein al Jakki, come il rais. Non ha mostrato paura né pentimento prima di morire. Senza appello e senza giustizia.

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