Pannella usa Saddam per tenere in vita i Radicali

La simpatia e la riconoscenza dovute a Marco Pannella per tante battaglie civili condotte controcorrente nella sua ormai lunga attività politica, spesso anche a costo di quelle che Vittorio Sgarbi con troppa durezza ha definito «insopportabili sceneggiate», non possono rimuovere domande e sospetti sulle sue ultime iniziative. Mi riferisco alla campagna per la fine delle sofferenze del povero Pier Giorgio Welby, rimasto per troppo tempo prigioniero del suo corpo irrimediabilmente paralizzato, e allo sciopero della fame e della sete (per ora sospeso) per salvare la vita a Saddam Hussein, proseguito anche dopo l’impiccagione del sanguinario dittatore iracheno per ottenere la mobilitazione del governo italiano all’Onu contro la pena di morte. Che è sempre iniqua, anche quando viene comminata ad assassini incalliti e pericolosi come certamente fu Saddam.
Pannella sa benissimo che il rifiuto della pena di morte è già radicato e diffuso tra le forze politiche italiane. La Lega è l’unica, tra i partiti che contino, a indulgere ancora al cappio, sventolato nell’aula di Montecitorio negli anni orribili di Tangentopoli persino contro gli imputati più o meno eccellenti di «Mani pulite», peraltro destinati in gran parte ad uscire assolti dai processi con sentenze disinvoltamente ignorate o distorte dai gazzettieri del giustizialismo. Egli sa altrettanto bene che il governo italiano, affrettatosi ad accontentarlo, non potrà incidere più di tanto sull’Onu, affollata di Stati piccoli e grandi, come Stati Uniti e Cina, contrari all’abolizione o alla moratoria della pena di morte.
Pannella, certo, può ben obiettare che le cause alle quali si crede fermamente vanno combattute a prescindere dalla possibilità di vincerle. Ma non può per questo dissipare il dubbio ch’egli abbia astutamente colto al volo le occasioni offertegli dai casi pur tanto diversi di Welby e di Saddam, accomunati suggestivamente nel loro «sovraccarico di simboli» anche da Adriano Sofri, per distrarsi e distrarre il suo pubblico dalle difficoltà politiche in cui i radicali si sono cacciati con l’improvvida e decisiva adesione alla cosiddetta Unione di Romano Prodi. Che senza Pannella non avrebbe racimolato i ventiquattromila voti e rotti con i quali nelle elezioni di aprile si aggiudicò un sostanzioso premio di maggioranza alla Camera e quindi il governo, pur disponendo fra i senatori solo di un margine da cardiopalma.
Se il bilancio del secondo governo Prodi è negativo, come è provato dalla impopolarità assegnatagli da tutti i sondaggi, lo è ancora di più quello della partecipazione dei radicali, portati da Pannella nella coalizione per garantirne e sostenerne l’aspetto riformatore: esattamente quello che è mancato con la grandinata fiscale della legge finanziaria. La fase 2, quella delle riforme reclamata per quest’anno da Piero Fassino e Francesco Rutelli, è già svanita con il prezzo pagato dal presidente del Consiglio alla sinistra massimalista contestando l’urgenza di un intervento sui conti pensionistici.
Il «seminario» ministeriale annunciato per l’11 gennaio nella reggia di Caserta non cambierà certamente le cose. Del resto, lo stesso Pannella è tornato qualche giorno fa dai microfoni di Radio Radicale ad usare la felice formula dei «quasi buoni a niente» da lui coniata in ottobre per rappresentare il governo di Prodi. Ma quel «quasi» ormai gli calza addosso come un flaccido perizoma.

Il buon Marco farebbe bene a rinunciarvi ammettendo di avere sbagliato quella che di cuore gli auguro sia stata solo la sua penultima scommessa politica.

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