Gian Paolo Serino
Da Dorothy Parker a Ernest Hemingway, da Truman Capote a Saul Bellow, da Thomas Eliot a Kurt Vonnegut e James Cain: sono solo alcuni degli scrittori che possiamo trovare nel primo volume di The Paris Review, la storica rivista letteraria francese fondata nel 1953 a Parigi e che in più di 50 anni di storia ha pubblicato interviste e racconti dei massimi autori del ’900. A mandare in libreria la raccolta - ne seguiranno altre tre dedicate alle interviste e altre quattro antologiche - è Fandango Libri (pagg. 510, euro 22) in un’opera che negli Stati Uniti ha raccolto il plauso di scrittori ed intellettuali e soprattutto l’interesse dei lettori affascinati da una rivista che ha cambiato la storia della letteratura e del giornalismo culturale e che sin dall’inizio riuscì a comprendere come l’unico modo per fare vera cultura fosse di rompere con l’accademismo delle altre pubblicazioni letterarie.
Intento contenuto già nell’editoriale apparso sul primo numero, firmato dallo scrittore americano William Styron: «Oggi le riviste letterarie sembrano essere sul punto di sopprimere la letteratura, e non con il randello del filisteo, ma piuttosto soffocandola sotto il peso della chiacchiera colta». Il risultato, come sottolinea l’attuale direttore Philip Gourevitch, è entrare nelle case degli scrittori «prima che l’industria editoriale scoprisse il concetto di tournée del libro, prima che le apparizioni televisive e radiofoniche diventassero la speranza di ogni aspirante scrittore di sonetti. Si può essere un autore estremamente famoso, con un vasto pubblico internazionale, senza essersi mai fatto sentire in un contesto diverso da quello dei propri libri».
Le interviste della Paris Review hanno contribuito a modificare questo modello: non a caso Hugh Hefner e Andy Warhol dichiareranno di essersi ispirati proprio al trimestrale francese per le loro riviste Playboy e Interview. E leggendo le interviste scelte per questo primo volume si comprende tutta la modernità di un approccio giornalistico che riesce ad andare oltre la maschera del personaggio letterario rivelando la natura più profonda e autentica degli scrittori. Tantissimi gli aneddoti, le curiosità, le dichiarazioni forti e quelle divertenti, che troverete in queste pagine.
A cominciare dall’intervista a Dorothy Parker, nel suo appartamento di un albergo del centro di New York che condivideva con il suo barboncino bianco, che si lamenta del lavoro precario dello scrittore ai suoi tempi, era il 1956, e di come negli anni ’20 i romanzieri avessero una vita agiata e senza preoccupazioni. «Loro erano capaci di scovare storie e racconti, e buoni per giunta, in stati di frustrazione e ansia che nascevano da due milioni di dollari l’anno, non dal fatto di vivere in una soffitta. Perché vivere in una soffitta non aiuta certo, a meno che non si abbia la sensibilità di un Keats». E la moda hollywoodiana di reclutare gli scrittori, come era stato il caso tra i tanti di Fitzgerald e Fante, era stata per la Parker l’inizio della fine della buona letteratura perché «il denaro di Hollywood non è denaro, ma neve ghiacciata che ti scioglie in mano».
Divertente e ironica l’intervista del ’57 a Truman Capote. Come quando alla domanda «Legge molto?» risponde: «Troppo. E qualsiasi cosa, incluse le etichette, le ricette e le pubblicità. Ho una passione per i giornali, leggo tutti i quotidiani di New York. Quelli che non compro me li leggo davanti alle edicole... Anche se la mia vera ispirazione sarebbe scrivere dei thriller: ne scriverei uno al giorno, come credo facciano in molti nel nostro tempo». Una dichiarazione quanto mai attuale oggi che esistono più giallisti che detenuti, più noiristi che delinquenti.
Sorprendente anche Hemingway quando spiega, nel 1958, il suo volontario isolamento, dopo gli anni della «generazione perduta» parigina, e il suo preferire ai salotti e ai ritrovi letterari il confronto attraverso la corrispondenza epistolare. «Anche perché», ammette, «quando ci si trova con persone dell’ambiente di solito si parla dei libri degli altri. Più uno scrittore è bravo, meno parla di quello che ha scritto. Joyce era un grande scrittore e avrebbe spiegato i suoi libri soltanto agli idioti, perché era convinto che quelli di cui aveva una buona considerazione fossero in grado di capirlo semplicemente leggendo i suoi libri». E al giornalista che gli chiede quale sia la migliore preparazione intellettuale per un aspirante romanziere risponde: «Diciamo che dovrebbe uscire di casa e impiccarsi, dopo aver preso atto di quanto sia difficile scrivere bene, anzi forse quasi impossibile. Poi, tirato giù da qualcuno privo di compassione, il poveretto dovrebbe forzarsi a scrivere meglio che può, per tutta la vita. Ma almeno avrebbe la storia dell’impiccagione da cui cominciare».
Al vetriolo Saul Bellow quando dichiara di pensare a Hemingway «come a un uomo che ha costruito un significativo modello d’artista, uno stile di vita rappresentativo dello scrittore. Per la sua generazione, il suo linguaggio creò un ideale di condotta a cui certi vecchi signori patetici rimagono ancora incollati. Apprezzo più Fitzgerald, anche se spesso ho come la sensazione che non sapesse distinguere tra innocenza e scalata sociale».
Quasi unico Borges nel descrivere in poche righe cosa sia veramente la poesia: «L’intelligenza ha poco a che fare
con la poesia. La poesia sgorga da qualcosa di più profondo; è al di là dell’intelligenza. Può darsi che non sia in rapporto con la saggezza. La poesia sta per conto suo; ha una natura sua propria. Indefinibile» (1967).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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