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Parla l’ultimo testimone della cattura del Duce

Marcello Foa ha raccolto nel libro “Il ragazzo del lago” il resoconto, finora inedito, di Aimone Canape, l’ultimo testimone della cattura del Duce a Dongo

Parla l’ultimo testimone  
della cattura del Duce

La storia del 25 aprile si arricchisce di una testimonianza inedita, quella di Aimone Canape, l'ultimo testimone della cattura di Mussolini a Dongo. Marcello Foa, inviato de il Giornale, ne ha tratto un libro appassionante;  "Il ragazzo del lago", edito da Piemme, in libreria da poche settimane. Canape non ha mai parlato finora è il partigiano che per primo trattò con i capi della colonna militare tedesca ferma tra Dongo e Musso e fu lui a interrogare i membri del convoglio militare per smascherare gli italiani travestiti da tedeschi, tra cui lo stesso Mussolini.

Il racconto di Aimone Canape, è confermato da Wilma Conti, all'epoca quindicenne  testimone di quei fatti e oggi presidente dell'Associazione partigiani di  Dongo, e rappresenta il culmine di una vicenda umana straordinaria. Canape, sedicenne apprendista cameriere andato nel '38 in Germania per uno stage, si trovò a essere trattato, grazie a una fortunata coincidenza, come un nobile dall'aristocrazia tedesca di allora. Conobbe gli uomini più ricchi di Germania, i gerarchi nazisti e lo stesso Hitler.

Tornato in Italia due anni dopo, dopo l'8 settembre del 43 divenne partigiano. Quando la colonna tedesca arrivò a Dongo, Aimone Canape era l'unico in paese a parlare il tedesco. Per questo fu inviato dai capi partigiani a trattare con i nazisti.

Marcello Foa ne ha tratto un romanzo storico avvincente e per gentile concessione dell'autore, ben noto ai lettori de il Giornale, pubblichiamo un passaggio del capitolo in cui vengono ricostruite le incredibili coincidenze che portarono alla cattura di Mussolini. Ecco l'estratto da Il ragazzo del lago (Piemme). La colonna è ferma e Aimone si sta recando verso il convoglio. La sera prima i partigiani avevano regalato ai ragazzini alcuni dei molti elmetti trovati nel deposito delle Ss a Dongo.

 

 

" Alle sette e mezza tutta Dongo si era riversata in strada. E i più eccitati erano i ragazzini, sebbene nessuno badasse a loro, come sempre, né alla loro allegria, che così tanto strideva con l'umore inquieto di cui era permeato il paese. Giocavano alla guerra e si percepiva nei loro occhi una frenesia particolare. Era la prima volta che potevano simulare una battaglia indossando un elmetto vero. I buoni da una parte, i cattivi dall'altra; o almeno, di solito era così. Ma quel giorno non dovettero immaginare un nemico. Si trovava  a poche centinaia di metri da loro. Bastava salire sul monte per fingere d'accerchiarlo. Corsero a perdifiato,  su per i sentieri che si arrampicano verso il promontorio che divide Dongo da Musso, fino alla chiesetta di Sant'Eufemia. Lì, tra le siepi, i partigiani avevano piantato alcuni manichini con in cima un foulard colorato e un berretto, ricorrendo a un trucco della prima guerra mondiale, vecchio e ormai patetico.  I partigiani di guardia non badarono ai bimbi e agli adolescenti che strisciavano tra le frasche; erano concentrati su ciò che accadeva sotto di loro,  alzando la testa per vedere meglio quel serpentone grigio-verde e i soldati nazisti che si muovevano da un blindato all'altro. I bambini bisbigliavano, ridevano, correvano dalle siepi ai cespugli, si accovacciavano sotto gli alberi, come avevano letto nei libri, come avevano sentito raccontare dai vecchi del paese quando evocavano le gesta della grande guerra. Giocavano, con un elmetto vero in testa, e un fucile di legno in mano.

Aimone girò l'angolo. Indossava solo un paio di pantaloni e una camicia bianca per dimostrare di non essere armato.

(...)

Il tedesco chiamò accanto a sé un soldato. Mossero tre passi  e si fermarono, Aimone fece altrettanto. Proseguirono così, lentamente, fino a quando non si trovarono faccia a faccia. Il comandante salutò sbattendo i tacchi, poi tese la mano. Aimone gliela strinse vigorosamente.

(...)

Flamminger si lisciò il mento e lanciò un'occhiata inquieta al suo attendente, che prese un binocolo e si mise a osservare le colline circostanti, a sinistra, poi a destra, alzò la testa verso la chiesetta di Sant'Eufemia.

«E quelli là sopra chi sono? »

«Lì sopra dove? »

«Guardi lei stesso». E gli passò il cannocchiale.

Aimone riconobbe i partigiani e i manichini improvvisati, che però da lontano sembravano veri. E vide delle ombre aggirarsi nel boschetto, altre muoversi con l'elmetto da una siepe all'altra nel giardino del Merlo, davanti a un castello del 1200, dove lo scolaresche, in tempi di pace, celebravano l'apertura e la chiusura dell'anno scolastico. Tante ombre, feline. Ombre con l'elmetto che sbucavano tra le frasche e si abbassavano improvvisamente, per poi ricomparire qualche metro più avanti. Sembrava che quel bosco pullulasse di soldati, ma erano ragazzini di undici, tredici quindici anni e giocavano a nascondino, seppur con il cuore in gola, perché il rumore delle due raffiche li aveva indotti ad essere ancor più guardinghi, rendendo straordinariamente verosimile il loro gioco di guerra.

Aimone avrebbe voluto chiamarli, salutarli con la mano. Nella sua mente rivedeva i loro volti estasiati quando, la sera prima, aveva distribuito gli elmetti trovati nel comando delle Ss. Avrebbe voluto ridere, ma non lasciò trapelare nulla del suo stato d'animo. Rimase impassibile, abbassò il binocolo e lo riconsegnò all'attendente.

«Lo vede anche lei, sono partigiani armati», disse con tono sicuro.

Il comandante si innervosì.

«Mi dica quanti uomini armati ci sono a Dongo, per favore», chiese.

«So che le montagne sono piene di partigiani e che molti di loro sono scesi in paese, ma non ho idea di quanti siano di preciso», rispose Aimone mostrandosi sincero.

«Due- tre mila? », insinuò il tenente, pensando a quanto il suo cappellano militare gli aveva riferito dopo il fortuito colloquio con Don Enea.

«Nooo, non credo così tanti. Sono divisi in molti piccoli gruppi...».

«Ma non può darmi una stima? Mille, mille cinquecento? », insisteva Flamminger.

«Troppi», rispose Aimone dando l'impressione di frugare nella memoria.

«Milleduecento? »

«Al massimo. Direi mille... forse, credo», aggiunse allargando le braccia  e guardandolo con l'aria interrogativa.

(...

) Flamminger pensava che Aimone stesse barando, perché nessuno dice tutta la verità in tempo di pace, figurarsi in guerra. «Se afferma che sono mille, significa che in realtà sono tremila», rifletté tra sé e sé. E invece si sbagliava, non poteva immaginare che nel suo candore, Aimone non aveva mentito.

Il ragazzo del lago

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