Il parroco del «Grande fratello» ora serve spritz e panini Inferno

L’Inferno è lastricato di gorgonzola, peperoni, pomodoro, peperoncino e aglio. Il Paradiso invece è foderato di prosciutto cotto, mozzarella, lattuga e salsa di gamberetti. Chi vuole può assaggiare anche il Purgatorio e, fintantoché la moderna teologia non ne decreterà la definitiva chiusura, persino il Limbo. Si va sul sicuro, almeno per i panini, al Pub del Don che don Marino Ruggero, 41 anni fra meno di un mese, ha inaugurato a Padova nel quartiere dell’Arcella, la borgata dove il 13 giugno 1231 morì di idropisia Sant’Antonio. Più controverso l’aspetto dottrinario, visto che il reverendo, a imitazione del «pane vivo disceso dal cielo» di cui narra l’evangelista Giovanni, ha deciso di trasformarsi in una baguette denominata com’era ovvio «del Don» e imbottita con fontina, melanzane, funghi di bosco e il solito cotto. Che poi chi mangia di questo pane possa vivere in eterno, è un altro paio di maniche.
La birreria-paninoteca aperta dalle 8 alle 14 e dalle 18 alle 24 in via Colotti non è certo il classico circolo ricreativo parrocchiale, e non solo perché nelle adiacenze non vi è una chiesa, e nemmeno perché sulla scala che conduce alla toilette troneggiano due enormi candelieri da altare con la cera biancorossa che cola, e neppure per la gigantografia di Toro Seduto che sovrasta un ritrattino di Gesù Cristo. Non lo è, semmai, perché l’anno scorso, di questi tempi, l’ex parroco di Villa di Teolo che oggi s’improvvisa barista avrebbe voluto farsi rinchiudere nella casa del Grande fratello e fu appunto rimosso dal suo vescovo dopo aver partecipato ai provini per la selezione dei concorrenti al reality show di Canale 5. In precedenza il pastore d’anime s’era organizzato da solo alcuni reality show natalizi in chiesa: nel 2003 un presepio con Bambino di colore e genitori interpretati da due conviventi nigeriani privi di casa e lavoro; nel 2004 un bastone al posto di San Giuseppe («per denunciare l’assenza della figura paterna nella società d’oggi»), una ragazza madre slava a impersonare la Madonna e gran finale con la canzone Un senso di Vasco Rossi intonata dal coro.
Figlio di un saldatore meccanico e di una casalinga, ordinato prete 16 anni fa nella parrocchia della Mandria, ciò che forse spiega la sua inclinazione a imbrancarsi con i più, don Ruggero porta al polso due braccialetti («uno me l’hanno regalato nei barrios del Venezuela e l’altro è un ricordo affettivo di quando ero curato a Dolo»), s’impomata i capelli col gel e indossa una camicia Lacoste, nonostante abbia accortamente scelto come simbolo del suo locale uno scudetto arancione nel quale campeggia la caricatura di un pretone in talare nera a 33 bottoni e tricorno sul capo.
A voler leggere i segni dei tempi, il Pub del Don arriva proprio mentre nel Veneto infuria la «guerra dello spritz» e il vescovo di Padova, seguito a ruota da quello di Verona, raccomanda l’evangelizzazione dei giovani tiratardi che la sera ciondolano nelle piazze tenendo in mano calici di vino e boccali di birra e costringono i sindaci a emanare ordinanze-coprifuoco per salvaguardare la quiete pubblica. Va precisato che Padova è la città dove nel 1919 i fratelli Barbieri inventarono l’Aperol. Cioè l’ingrediente fondamentale dell’aperitivo oggi più bevuto nel Nord Est, le cui origini vengono fatte risalire ai tempi della dominazione asburgica (spritz deriverebbe dal verbo tedesco spritzen, spruzzare), quando i soldati austriaci, presto convertitisi ai costumi locali, presero l’abitudine di farsi allungare le ripetute ombre de vin con uno sprizzo di seltz per non finire ubriachi già prima di mezzogiorno. L’Aperol risulta anche lo sponsor di un sito (www.spritz.it) dove giovedì scorso, alle 6 di mattina, ho trovato connessi 126 utenti, probabilmente incapaci di smaltire l’ebbrezza notturna con una dormita. Da tale pulpito mediatico predica, con lo pseudonimo Don Spritz, don Marco Pozza, «evangelizzatore di piazza» della parrocchia padovana della Sacra Famiglia. La sua ultima omelia via Internet si conclude così: «Hai ragione, caro ragazzo... Troppo “figo” questo Dio! Percorriamolo assieme questo strano percorso!». Il suo vescovo può andarne fiero.
Dice don Pozza che lei non ha ben chiaro dove vuole arrivare e che il Pub del Don chiuderà presto. E non si riferisce all’orario.
«È una terminologia da testimone di Geova».
In che senso?
«Da fine del mondo. Mi dispiace questo tono apocalittico, anche perché entrambi lottiamo per gli stessi obiettivi con mezzi diversi».
Cioè?
«Io faccio il pub, lui le discoteche all’aperto».
Ah però.
«Ha 27 anni, io qualcuno di più. Sarei molto più cauto nel linguaggio. Mi risulta che abbia usato parole poco adatte pure con i ragazzi ammessi alla cresima. Così creiamo solo confusione nei giovani, che poi adottano lo stesso lessico sia per riferirsi a Dio che alle pornostar».
Che cos’è questa «guerra dello spritz»?
«Un fenomeno di massa ormai ingestibile. I baristi fanno a gara per creare miscele sempre più esplosive, col whisky al posto del Campari. Non è più spritz. Sono cocktail che i giovani ingollano all’aperto col pretesto d’incontrarsi a chiacchierare. E siccome vige l’usanza che ognuno paga un giro agli altri, alla fine sono tutti ciucchi. Il sindaco è corso ai ripari anticipando dalle 2 a mezzanotte l’orario di chiusura dei locali. Ma è servito a poco. I ragazzi si portano birre e alcolici da casa, trasformano la città in un immenso pisciatoio, prendono a calci le grondaie».
E al Pub del Don non succede niente di tutto questo?
«Direi che il rapporto con il condominio che ci ospita è improntato alla massima civiltà».
Qui come lo fate lo spritz?
«Nella maniera più tradizionale: un terzo di prosecco, un terzo di Aperol, un terzo di seltz, ghiaccio, fettina d’arancia. C’è anche lo sprizzettone».
Sprizzettone? Li imbriaga.
«Non sono il barman. Il pub è solo uno spicchio della mia attività di coadiutore del vicario episcopale per la pastorale giovanile. Vengo qui quando posso».
Quindi non controlla che non s’imbriaghino.
«È l’obiezione che mi hanno fatto in molti: perché vende alcolici? Rispondo: proprio per educare i giovani a difendersi dalla tentazione di abusarne. Qui troveranno sempre qualcuno che dice loro: alt, fermati amico, stai esagerando».
Intanto si mangiano lo stipendio a quella slot machine.
«È un semplice videogioco, tipo i vecchi flipper. Niente scommesse qui».
Perché porta due anelli al dito?
«Quello metallico l’ho comprato in Venezuela in un negozio new age. Cambia colore a seconda del livello di stress: blu tranquillo, giallo nervoso, verde agitato, viola pericoloso. Adesso è blu, vede?».
E la fede d’oro lavorato?
«Serve a ricordarmi che il prete è anche uomo. Essere uomini vuol dire essere fragili».
«Ricordo affettivo», come il braccialetto?
«Sì».
Gliel’ha regalato una donna?
«È il dono di compleanno che mi ha fatto una ragazza, sì. Ma senza alcun secondo fine. Altrimenti non lo terrei».
Prima di dedicarsi alla mescita del vino comune, dove consacrava il vino da messa?
«Sono stato curato a Dolo, ad Asiago, a Montegrotto Terme e parroco a Villa di Teolo, un paesino di 890 abitanti sui Colli Euganei».
Ad Asiago ha la casa di villeggiatura Celentano, il più famoso predicatore d’Italia.
«L’ho visto a messa una sola volta, a una veglia pasquale. Più presente Claudia Mori, la moglie. Ma non è che stavo a controllare se il regista Ermanno Olmi o lo scrittore Mario Rigoni Stern venivano o no in chiesa».
Da chi è frequentato il Pub del Don?
«Da tutti, anziani inclusi. Soprattutto dagli adolescenti fra i 14 e i 16 anni. La fascia d’età cui tengo di più».
Come mai?
«Dopo la Cresima c’è la fuga generale dalla Chiesa. Abbiamo il vizio della catechesi imposta anziché proposta. Costringiamo i ragazzi ad accostarsi ai sacramenti solo per non farli sentire diversi dai coetanei, non per scelta personale. E così scateniamo in loro l’allergia al sacro».
Nonostante il logo doncamillesco del suo pub, i parroci del circondario hanno disertato l’inaugurazione.
«Colpa mia. Non ho fatto nulla per avvicinarli».
Quindi il bar se l’è benedetto da solo.
«Sì, e ho detto ai presenti che non riuscivo a immaginare quale potesse essere l’espressione di Dio nel veder aspergere con l’acqua santa un pub gestito da un sacerdote. È un’esperienza nuova anche per il Padreterno. Come dice San Paolo, se è frutto dello spirito, durerà. Se è frutto del male, morirà».
Non s’è visto all’inaugurazione neppure il sindaco diessino Flavio Zanonato.
«Problemi familiari, mi ha telefonato per avvisarmi. Comunque ha promesso che verrà, è molto curioso di vedere».
Chi altro ha invitato al taglio del nastro?
«Avevo pensato a Paolo Bonolis, Luca Laurenti e Paola Perego. Ma sarebbe stato controproducente».
Al suo vescovo non ha pensato?
«L’ho informato dell’inaugurazione».
Come?
«Per via epistolare ancora nel marzo scorso. Sono seguiti due mesi di silenzio. A metà maggio mi ha ricevuto in udienza. Mi pareva interessato all’iniziativa».
Non direi. Leggo qui un comunicato ufficiale: «Il vescovo esprime la sua personale sofferenza».
«Eh, lo so. Le sembrerà assurdo, ma la curia ha inviato il comunicato al Gazzettino prim’ancora che terminasse il nostro incontro».
Come pensa che andrà a finire questa vicenda?
«Ho detto a sua eccellenza: mi mandi pure a Caorera di Vas, provincia di Belluno, 200 anime, la più piccola e più lontana delle parrocchie della diocesi padovana. Ma il Pub del Don andrà avanti anche senza di me».
E se il vescovo invece le ordinasse di chiuderlo?
«Cercherei di capire i motivi e poi lo chiuderei. Il giorno della mia ordinazione ho promesso obbedienza».
E alla promessa di castità è obbediente?
«Be’, insomma, mi auguro proprio di sì. Tutti i giorni è un banco di prova. Viviamo in una società dove anche il prete finisce per assorbire ciò che vede e ciò che sente. Ma la castità resta una componente essenziale della vocazione. Il giorno che mi andasse stretta, rinuncerei al sacerdozio. Non metto la mano sul fuoco, perché non si sa mai...». (Ride). «Però seduto su due sedie no di sicuro».
Come le è saltato in mente di andare al Grande fratello?
«Mi sono detto: se ogni anno 25.000 ragazzi chiedono di partecipare ai provini, è bene che un prete vada a vedere che cosa c’è dietro. Se quello è il luogo di Satana, cerchiamo almeno di capire che metodi usa il demonio per conquistare i giovani».
Missionario dietro le quinte.
«All’hotel Concorde di Milano ogni ora visionavano 12 fra ragazzi e ragazze. Telecamera accesa, domande di rito. Spente le luci, quelli del casting sono stati chiari: “La curia non le darà mai il permesso”. Avevo avvisato il vescovo del provino mediante lettera. Il suo dissenso era stato netto fin da subito. Alla fine mi ha tolto la parrocchia».
Che cosa ci trova di educativo nel Grande fratello?
«Di educativo? Niente. Guardo solo i 20 minuti finali, insieme con gli adolescenti. M’interessano i loro commenti. E sa che cos’ho scoperto?».
Che cos’ha scoperto?
«Che sono i genitori a spronarli a inseguire il successo e il facile guadagno».
Alla lettura del breviario quanti minuti dedica?
«Venti al mattino e altrettanti la sera».
Il doppio del Grande fratello.
«Facciamo 45».
E alle confessioni?
«Da parroco due ore tutti i sabati. Adesso sono confessore ambulante su richiesta. Do l’assoluzione anche qui nel pub. Lo so che qualcuno storcerà il naso. Ma Gesù i peccatori non andava a cercarli nelle sinagoghe».
Lei da quanto tempo non si confessa?
«Forse la scandalizzerò: mi confesso solo un paio di volte l’anno. In questo sono in sintonia con don Paolo Spoladore, prete di trincea e cantautore, il quale sostiene che ci vorrebbero due anni di digiuno dai sacramenti per scremare la fede dall’abitudine. La confessione non è una lavanda gastrica per mettersi la coscienza in pace».
Perché s’è fatto prete?
«Da piccolo volevo diventare veterinario. A 9 anni ho ascoltato dei sacerdoti che parlavano della vocazione, mi hanno entusiasmato. A 11 ero già in seminario. Pensavo che fosse un mestiere come gli altri. Poi ho capito che quella di rendersi utile a tutti, e a tempo pieno, è una scelta di vita intessuta di rinunce».
Come mai quando arriva l’estate finisce sui giornali?
«Me lo chiedo anch’io. Si vede che in questa stagione non sapete come riempirli».
Che differenza c’è fra lei e don Vitaliano Della Sala?
«Chi è? Ah, ho capito... L’amico dei no global. Io starei più attento a non farmi strumentalizzare dalla politica».
Sfilerebbe al Gay pride come ha fatto don Della Sala?
«No. Anche se ho una mia teoria sul Gay pride».
Dica.
«Conosco tanti gay, pur non essendo come loro. Non li considero né lebbrosi né cittadini di serie B. Penso che dovremmo avere più comprensione, tanto più che anche nella Chiesa allignano vescovi e preti omosessuali e, quel che è peggio, pedofili. E qui mi fermo. Non sopporto questa ipocrisia: anatemi in pubblico, sotterfugi in privato».
L’ultima volta che ha portato la comunione a casa a un malato?
«Venticinque giorni fa. Sono stato da una signora anziana dove non si reca mai il suo parroco: la considera inutile, incapace d’intendere e di volere. Io invece devo ringraziarla, perché mi ha dato la prova che Dio non solo esiste ma va oltre le apparenze. Dopo due anni che la comunico, ho capito che è più consapevole di ricevere il Signore di tanti basabanchi che vedo a messa la domenica».
Ma nell’Eucarestia, sotto le specie del pane e del vino, è veramente presente il corpo e il sangue di Cristo? Oppure si tratta di una simbologia?
«No, no, che simbologia, scherziamo? Se non ci crede un prete a questa verità di fede è meglio che lasci subito e vada a zappare i campi».
È vero che ha l’abitudine di celebrare la messa alla presenza della sua cagnetta Naomi?
«L’ho fatto una sola volta, il giorno che ho lasciato Villa di Teolo, alla messa del fanciullo, nella quale ero abituato a far parlare i peluche dall’altare».
Ma era una messa o il Muppet show?
«Era un modo per animare l’omelia con i pupazzi. Se non vede non può capire».
Ha un debole per Naomi Campbell?
«Sono stati i ragazzi a chiamare la cagnolina come la top model».
Perché fece interpretare Giuseppe e Maria a due conviventi nigeriani? Non sa che il codice di diritto canonico include fra gli impedimenti dirimenti alla celebrazione del matrimonio cristiano «il concubinato pubblico e notorio»?
«Lo so. Ma queste sono le regole di cui Cristo diceva: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”».
Nel catechismo promulgato dal Vicario di Cristo al paragrafo 2350 c’è scritto: «I fidanzati riserveranno al tempo del matrimonio le manifestazioni di tenerezza proprie dell’amore coniugale».
«Era Natale anche per quei due poveri immigrati».
E anche per la ragazza madre slava sedicenne trasformata in Madonna.
«Meritava di stare nel presepio: ha avuto il coraggio di far nascere suo figlio. Il padre la voleva costringere ad abortire. Lei ha rifiutato e lui l’ha abbandonata».


Dubita mai dell’esistenza di Dio?
«Qualche volta m’è capitato, soprattutto nei momenti di dolore e di fronte a certe morti assurde».
Che cos’è per lei la santità?
«Un dono che Dio fa a tutti e che la maggioranza di noi respinge».
(337. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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