Parte la grande offensiva israeliana in Libano

Il ministro Peretz vuole superare anche il fiume Litani per spazzare via le basi hezbollah

da Gerusalemme

Alla fine, dopo una giornata di tentennamenti e di esitazioni, o almeno la prima fase della nuova avanzata verso il fiume Litani, 30 km a nord del confine, è partita. Dopo un intenso e continuo sbarramento di artiglieria, una brigata meccanizzata ha oltrepassato la frontiera puntando ben oltre i 5 km della zona cuscinetto in cui muovevano le precedenti operazioni militari.
«È un’offensiva destinata a eliminare il 30 per cento delle katiusce puntate sul nord della Galilea, ma che non possiamo considerare legata a un’operazione più ampia», dichiarano nella notte i portavoce militari sentiti dal Giornale. Come dire che il grande balzo è iniziato nonostante dubbi ed esitazioni.
I dubbi e gli incubi erano, fino a ieri mattina, quelli di Ehud Olmert. Le ansie di un politico costretto, per la prima volta nella sua vita, a soppesare le proprie decisioni buttando sul piatto della bilancia le vite di centinaia di soldati israeliani. Olmert non è un generale, non ha mai fatto una guerra, non vuole essere accusato, come successe a Golda Meir, di aver messo a repentaglio la vita dei propri militari per la sua inesperienza. Si circonda di consulenti, chiede a tutti un consiglio, annota pareri su pareri. Ma l’angoscia non lo molla. I piani sono già sulla carta. Il capo di stato maggiore Dan Halutz lo tampina, gli ricorda che senza quella svolta, senza quella corsa fino al fiume Litani, e magari un po’ oltre ancora, la guerra non si risolverà. Resterà un pantano viscido e confuso in cui lo stillicidio di caduti al fronte si alternerà a quello dei civili uccisi dai missili.
I generali crudeli non gli nascondono nulla. Gli mettono sotto il naso le stime impietose, lo invitano a deliberare da condottiero, a considerare la possibilità di almeno cinquecento morti, di un mese e forse più di durissime operazioni. In mancanza di un sì dovrà rassegnarsi a sopportare i lanci di missili, le proteste dell’opinione pubblica, le accuse di debolezza e incertezza. Così a metà mattina spetta a lui decidere, spiegarlo agli altri ministri chiusi assieme ai generali e ai capi dell’intelligence nel conclave del Gabinetto di sicurezza.
Ma il primo a sudare freddo è il premier. E allora parla chiaro anche lui. Snocciola quelle stesse stime, quegli stessi numeri di fronte a dodici ministri attoniti. Scuote la testa l’anziano Shimon Peres. Dice di no il laburista Ophir Pines Paz. Si astiene Eli Yshai. Molti si chiedono se le stime dei militari siano corrette. Se quei trenta giorni non siano destinati a trasformarsi in un’odissea senza fine. Il capo di stato maggiore Udi Adam aveva promesso la fine della prima fase in una settimana ed è stato appena rimosso. Ma non ci sono garanzie che senza di lui vada meglio. Così, prima e durante il voto, è bagarre, scontro politico e personale durissimo, in cui volano offese e parole grosse. Al centro dell’arena ci sono innanzitutto il ministro della Difesa Amir Peretz e il suo predecessore Shaul Mofaz. Lo scontro sembra una nemesi storica. L’ex sindacalista di sinistra Amir Peretz si è trasformato in questi mesi in un ultrà dell’azione militare. La definisce urgente, irreversibile, irrinunciabile. Chiede addirittura un salto a nord del Litani per non rischiare di tralasciare qualche sito missilistico e qualche arsenale. Shaul Mofaz, falco tra i falchi quando guidava lo stato maggiore, gli contesta l’impudenza e la temerarietà dell’inesperienza. Propone, in alternativa, un piano limitato e contenuto. Lo scontro, si sa, è soprattutto un battibecco dettato dall’animosità personale, un confronto privo di reali contenuti.
Il vero dilemma frulla nel cervello e nell’animo di Ehud Olmert. Gli rivolta lo stomaco. Allora prende tempo, esce dall’aula, telefona negli Stati Uniti, chiede a Condoleezza Rice quale sia lo stato della trattativa alle Nazioni Unite. L’alleata con cui si è duramente scontrato nei giorni scorsi gli consiglia di prendere tempo, di non fare la figura di chi distrugge gli sforzi della comunità internazionale. Il premier richiama all’ordine i contendenti, mette al voto il nuovo piano dei generali, porta a casa il sì di nove ministri su dodici, ma alla fine trova una scappatoia per mettersi la coscienza in pace e guadagnare un’altra manciata di ore. Condiziona l’applicazione di quel piano, il via della nuova offensiva, ai risultati dell’iniziativa diplomatica discussa in queste ore al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite.

Il sì del Gabinetto di sicurezza non garantiva l’immediato via all’offensiva, ma si limitava a delegare al premier e al ministro della Difesa l’autorità per accenderne i motori. Ma i nuovi missili sul nord e le minacce di Nasrallah hanno contribuito nella notte a spazzare via le ultime esitazioni e a dare il via all’avanzata verso il fiume Litani.

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