Pasqua insegna: per educare non basta istruire

Che sia proprio impertinente chiedersi quale peso abbia la Pasqua cristiana nel sentire della gente? Il fascino delle liturgie di questi giorni, così come la cronaca ce le ha raccontate, direbbe che la tradizione popolare sembra tenere, nonostante tutto. D’altra parte, però, un sempre più consistente numero di cattolici sembra dimostrarsi propenso a sbrigative archiviazioni, in nome del tradizionalismo, della superficialità, dell’evasione verso mete turistiche, che segnano la prima vera «transumanza» di primavera. Un glissare dell’animo che rischia di mettere nel cono d’ombra il genio cristiano che si nasconde dietro queste ricorrenze, come se la questione fosse cosa da ingenui dello spirito o da addetti ai lavori.
È vero che la Pasqua si pone come mistero centrale per coloro che dicono di avere una fede, ma è altrettanto vero che essa si interseca con le domande più radicali dell’esistenza umana e di conseguenza con il bisogno di darvi risposta attraverso la scelta di comportamenti conseguenti. Dio solo sa quanta retorica si celi in tante affermazioni sulla croce e quanto dolorismo e tristismo si nasconda dietro facili slogan, anche omiletici, che non si confrontano con la ragione solo perché appollaiati negli spazi sicuri dei luoghi comuni. E penso a quanta banale demonizzazione stia producendo certo clericalismo laicista contro la presenza dei simboli cristiani dentro gli spazi pubblici. Non sarebbe male se la società, in questo confronto di civiltà che rischia di tradursi in una Babele incomunicante, tornasse invece a cogliere il genio che si nasconde nella più autentica tradizione cristiana.
Giusto per vedere nella croce, non il «cadaverino» che turba una società pacifista, pronta a demonizzare la violenza salvo produrla a dosi industriali, ma per cogliere il messaggio di responsabilità e di gratuità che essa contiene. Penso non sfugga ad alcuno la debolezza del progetto educativo così come viene inteso nelle società occidentali. Anche nelle più nobili intenzioni si rischia di confondere educazione con istruzione e concessione di beni. A un figlio non si nega nulla, fosse altro per evitargli le fatiche di un passato neppure tanto remoto. Ma c’è un silenzio assordante su ciò che è essenziale per formare uomini e donne capaci di relazione: l’educazione al senso di responsabilità, che ha come fondamento il senso del sacrificio. Un’esigenza imprescindibile quanto disattesa, perché lo stare insieme postula una coniugazione di reciproci diritti, che si trasforma necessariamente in assunzione di doveri. Questo racconta la drammatizzazione della croce: la fatica del voler bene, ma anche la sua eroica attuazione, insieme alle ferite causate sull’uomo dalla mancanza di comunione con gli altri e di responsabilità verso di loro.
Assumere la logica del perdersi per amore è l’unica condizione, non necessariamente religiosa, per seminare segnali di risurrezione nelle tante sacche di morte che popolano la società. È in questa sofferenza di vita che si nasconde la grande metafora del sabato santo, lo spazio dell’assenza e della morte di Dio. Un’oscurità della coscienza che consuma la propria disperazione sui tanti drammi che Caino ci consegna ogni giorno negli spazi della cronaca. «Dio è morto, Dio rimane morto. E noi lo abbiamo ucciso!», era il grido disperato e lacerante di Nietzsche. Un grido senza futuro che creava le premesse perché l’uomo occupasse gli spazi del divino, come un moderno Faust, capace di produrre la vita, avendone però perduto le ragioni per viverla.


È nell’assenza di trascendenza che l’amore umano si appiattisce nei confini angusti dell’egoismo psicologico e culturale e gli spazi del sabato santo, cioè della morte di Dio, fanno degli uomini il nuovo Olimpo, che progetta la storia con le misure minuscole delle loro misure umane. Il canto d’amore che si sprigiona dalla croce pasquale è qualcosa di più di una questione da preti. È l’unica condizione per restituire qualità all’esistenza umana, per renderla, cioè, capace di risurrezione.

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