Fosse solo per i suoi capelli senza tregua, sembrerebbe uno scienziato pazzo. Le unghie, per di più: l’indice e l’anulare della mano sinistra ricordano quelli di un mammasantissima a Broccolino anni Cinquanta. Però poi sorride, strizza gli occhi ed eccolo qui Pat Metheny, lui e solo lui, uno dei chitarristi più bulimici del mondo (vedi le unghie extralarge che cosa servono), goloso di talento e novità, rocker per un mese negli anni Sessanta e poi da allora furibondo jazzista con vista (a dieci decimi) sulla fusion, sui contrappunti classici e sulla world music, ovvio. Un disco dopo l’altro, e minimo cento concerti l’anno. Avendo vinto 18 Oscar della musica, di cui sette consecutivi (ossia i Grammy Awards), ha il problema che assilla pochi altri: s’è già inventato quasi tutto l’inventabile. Perciò stavolta ha cercato le canzoni di altri, dai Beatles a Burt Bacharach a Carly Simon, e le ha messe in fila nel cd What’s it all about. Badate bene: non sono cover, persino lui che è pacioso come un monaco tibetano s’incazza se le chiamate così. Le sue sono suggestioni che nascono dall’ascolto di quei brani. Tratteggi, schizzi. Per farla breve, a parte And I love her dei Beatles, ci vuole il titolo scritto in copertina per riconoscere gli originali. Potenza dell’ispirazione. E della modestia: «In fondo l’idea non è mica mia: ho semplicemente sfruttato una tecnica impressionista. Ecco, ho suonato proprio così». Perbacco.
Questa è bella, un jazzista impressionista.
«Dopo la mia ennesima tournèe mi sono ritrovato a casa e mi sono messo a suonare».
Però, Pat Metheny, detta così, sa di dopolavoro.
«In realtà, sono sempre in giro. Ma quando rientro a casa, non esco mai. Magari per settimane. Insomma, mi sono messo a suonare una chitarra che nel 1984 hanno progettato per me e non avevo mai capito bene come usare: la chitarra baritono».
Il primo brano è The sound of silence di Simon & Garfunkel.
«E lì uso la Pikasso di Linda Mazer, una chitarra con 42 corde».
Nientemeno.
«Insomma, ero a casa e mi sono accorto che stavo suonando tante canzoni quasi antecedenti alla mia nascita (sta per compiere 57 anni - ndr). Oppure di quando ero un ragazzino. Da lì è nata l’idea di What’s it all about con Garota de Ipanema di Jobim e Vinicious de Moraes, Slow hot wind di Henry Mancini e That’s the way I’ve always heard it should be di Carly Simon».
Suonerà con il Trio a Bologna, Roma, Avellino e Bari dal 12 al 15 novembre: inserirà quei brani in scaletta?
«Non lo so ancora. Decideremo anche con la band».
Però li ha incisi tutto da solo.
«Ed è la seconda volta nella mia carriera che pubblico due dischi consecutivi da solista».
Si fa per dire: l’altro era Orchestrion dove utilizzava un enorme strumento meccanico che suona come un’intera orchestra.
«E su questo fronte ci saranno sorprese: durante il tour sono venuti da me altri inventori di apparecchiature come quelle e ho una voglia pazza di suonarle. Però ho altri quattro progetti in piedi e quindi mi sa che c’è da aspettare ancora un bel pezzo».
Comunque quelle di What’s it all about non saranno cover, e va bene. Ma certo che a scegliere brani come Alfie di Burt Bacharach non ci vuole granché fantasia.
«In effetti un brano così sarà stato suonato da centinaia di altri artisti. E così anche Pipeline dei Chantay. Però non so se nel mio disco appaiono come standard perché sono tutte irriconoscibili. Diciamo che sono le suggestioni che ho provato ascoltandoli. Niente di più».
Erano le canzoni della sua adolescenza. Lei ha tre figli under 20. Quali saranno i brani che loro ricorderanno tra quarant’anni?
«Non lo so. Di certo, tutti i genitori, me compreso, rivivono il proprio passato attraverso le età dei figli.
In poche parole, quei ragazzini faranno fatica a ricordarsi di Britney Spears o Lady Gaga
«Diciamo che se loro diventeranno jazzisti, li vedo in difficoltà a suonare brani di quelle due lì».
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