L’indio blanco, l’Inglès considerato il re senza corona della Patagonia, viveva in una valle andina del Cile Meridionale. Si chiamava don Estebán Lucas Bridges, era cittadino argentino per nascita ma, in quanto figlio del reverendo inglese Thomas e di Mary, nel 1874 era stato battezzato come Stephen. La geografia assegnava la Terra del Fuoco al Cile e all’Argentina, la colonizzazione scientifico-religiosa l’assegnava invece all’Inghilterra, mentre secondo il diritto dei popoli apparteneva ai suoi legittimi abitanti: gli indios fuegini. Ce n’erano allora alcune migliaia: in meno di cinquant’anni si sarebbero ridotti a qualche decina, per effetto del «fuoco amico» della civiltà.
Per i fuegini, jahgan, ona, haush e alakaluf, Estebán era Lanushwaiwa, ovvero «l’uomo dell’insenatura del picchio», ma anche Khueihei, l’«ostinato» o il «persuasivo», a seconda delle circostanze, oppure, dopo aver perso un dito nel 1908, Gooiyn u Whash terrh kamm, «la volpe dei monti senza un artiglio»... Lui ne parlava la lingua, degno erede di suo padre che l’aveva studiata al punto da ricavarne un dizionario. Alla morte di Thomas, nel 1898, contava 32mila vocaboli e relativi lemmi, un numero imponente rispetto alla sprezzante quanto sbrigativa definizione coniata anni prima da Charles Darwin: «Un linguaggio a stento meritevole di essere definito articolato». Nel 1933 ne venne stampata in Austria un’edizione limitata di 300 copie, Yàmaha-English Dictionary, e dopo la Seconda guerra mondiale il manoscritto, di cui si erano perse le tracce, riapparve in Germania. Dal 1946 è esposto al British Museum, monumento funebre a una civiltà scomparsa nel tempo stesso in cui se ne certificava l’esistenza.
Ai tempi del Cile Meridionale, Lucas Bridges aveva una sessantina d’anni ed era malato di cuore: per quanto nato in Argentina, gli era rimasto il passaporto inglese e così nella Grande guerra aveva combattuto per il Re e si era poi trasferito in Rhodesia. Aveva sì mantenuto legami familiari e di proprietà con il Sud America ma, come un uccello migratore, ai primi freddi volava verso climi più miti... Nel 1938 lo scrittore A.F. Tschiffely, divenuto celebre per aver raccontato in un libro la sua traversata a cavallo da Buenos Aires a Washington, riuscì a incontrarlo prima della consueta migrazione invernale. Nei suoi anni argentini Tschiffely aveva sentito molte narrazioni su questo «Capo bianco» che per quarant’anni era stato una leggenda della Terra del Fuoco e non si rassegnava all’idea che di quell’esistenza eccezionale non restasse memoria scritta. Bridges inizialmente disse di no, ma nel tempo, come ammetterà con ironia, «avendo individuato il mio punto debole Tschiffely mi somministrò una dose robusta d’adulazione e, forte del vantaggio ottenuto, prima che potessi riavermi mi costrinse a promettere che questo libro sarebbe stato scritto!».
Pubblicato nel 1948, l’anno prima della morte del suo autore, avrà per titolo Uttermost Part of the Earth ed esce ora per Einaudi in prima traduzione italiana (Ultimo confine del mondo. Viaggio nella Terra del Fuoco, pagg. XVII-590, euro 24) con l’introduzione originale dello stesso Tschiffely, ancora oggi condivisibile: «Un’opera unica e di valore. Oltre ai dati etnografici e di vario genere, vi è in essa infatti più vera avventura che in cento romanzi. Questa sì che è storia: un documento autentico, privo di manipolazioni, su un gruppo di tribù indiane che, ahimè, è di fatto scomparso. Nessuno scrittore, compresi Darwin, il capitano Fitz Roy e diversi altri, per tacere dei nostri “moderni” esploratori, ha davvero conosciuto gli indiani fuegini e ancor meno vissuto con loro per molti anni fino a comprenderne i complessi idiomi con la stessa padronanza dell’autore di questo libro. Non fosse stato per don Lucas, queste popolazioni native praticamente sconosciute, le loro leggende, i loro costumi e molto altro materiale degno d’interesse sarebbero caduti in un irrimediabile oblio». Trent’anni dopo, nello scrivere In Patagonia, Bruce Chatwin confesserà: «Quando ero ragazzo The Uttermost Part of the Earth era uno dei miei libri favoriti. In esso Lucas Bridges descrive la vista del lago Kami dall’alto del monte Spiòn Kop, e racconta come, in seguito, gli indios lo avessero aiutato a tracciare un sentiero che collega Harberton all’altra fattoria della sua famiglia, a Viamonte. Avevo sempre desiderato percorrere quel sentiero».
Un punto di forza di Ultimo confine del mondo sta nella sua completa assenza di retorica. Figlio di un religioso, Lucas Bridges capisce perfettamente che le motivazioni paterne hanno più a che fare con lo spirito di avventura e di realizzazione di sé che con l’evangelizzazione delle anime. Il reverendo anglicano Thomas lascia ai propri figli l’eredità di un esempio in cui l’interesse per l’altro non degenera mai in sfruttamento o in assimilazione forzata, ma si nutre dell’«accettazione tollerante del diritto degli indiani a vivere secondo i propri costumi nel paese che era loro per diritto di nascita». Allo stesso modo, Lucas Bridges è consapevole che non esistono selvaggi buoni resi cattivi dalla società, ma uno stato di natura che in quella Terra del Fuoco si configura come «uno stato mentale di cacciatore e di preda». È una realtà di faide, tradimenti, sopraffazioni.
Un altro elemento è quello naturale, mutevole e affascinante, perfetto scenario d’avventure di mare e di terra.
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