Roma - Uno a uno palla al centro. Il megavertice di villa Campari, sulle sponde del lago Maggiore, termina in un pareggio: da una parte Berlusconi ottiene da Bossi la frenata sulle pressanti richieste di andare al voto anticipato; dall’altra Bossi ottiene da Berlusconi la chiusura netta all’inserimento nella maggioranza dell’odiato Casini.
Un summit, quello di Lesa, che ha rafforzato l’asse tra Pdl e Carroccio e gettato le basi per la strategia d’autunno: avanti così con la stessa maggioranza premiata dagli elettori e basta giochetti. Un esito salutato da Bonaiuti, portavoce del premier, con «soddisfazione perché come sempre non poteva mancare l’accordo con Bossi e la Lega». Nella residenza novarese del presidente del Consiglio arrivano alla spicciolata i ministri leghisti Bossi, Calderoli e Maroni, accompagnati dai capigruppo di Camera e Senato, Reguzzoni e Bricolo e dal governatore del Piemonte Cota. Assieme ai leghisti, il ministro dell’Economia Tremonti. Accanto a Berlusconi, che inizialmente fa da Cicerone mostrando il giardino ai suoi ospiti, il triumviro Verdini e il responsabile giustizia del Pdl Ghedini.
Il primo ad abbandonare la sede del vertice, dopo la colazione di lavoro, proprio il leader del Carroccio che, assediato dai cronisti, dice soltanto che «si va avanti così, senza Casini e senza l’Udc per realizzare il programma». Il suo gol, insomma. Il Senatùr ha voluto sentirselo dire in faccia che per l’ex democristiano, in questo governo, non c’è spazio. Presumibilmente Bossi avrà messo in guardia il Cavaliere pigiando su più tasti: guarda che quello è peggio di Fini, ti vuole logorare, non vuole il federalismo, si metterebbe di traverso su mille provvedimenti, non puoi fidarti e poi, cosa diciamo ai nostri elettori? Casini non ha vinto le elezioni e poi governa assieme a noi? E Berlusconi a rassicurare l’amico: tranquillo, Casini resta dov’è. Se poi dovesse convergere su qualche provvedimento che male fa?
La seconda frase carpita da Bossi racconta invece il gol del Cavaliere. Il quale ha persuaso il Senatùr che continuare a evocare le urne non va bene. Non conviene per i mercati perché si dà l’immagine di un governo traballante; non conviene perché si irrita il Quirinale, un fronte che è meglio tenere chiuso; non conviene in base ai dati in mano a molti, secondo cui gli italiani sarebbero stufi di ricorrere alle urne per colpa della litigiosità di Palazzo. E soprattutto non conviene dar l’impressione di essere noi a trascinare al voto gli italiani. Quindi? Tutto come prima? Una maggioranza ancora ostaggio delle bizze dei finiani? Nient’affatto. La convinzione di Bossi e Berlusconi è che, questa volta, non succederà come col disegno di legge sulle intercettazioni. Allora la maggioranza era rimasta in balìa delle bizze finiane, correggendo un testo fino alla nausea e arrivando perfino ad accantonarlo perché stravolto. Da domani non sarà così: o i finiani si mettono in riga o saranno loro ad assumersi la responsabilità di aprire la crisi, bocciando quello che a loro non piace. In quel caso le elezioni potrebbero anche starci ma soltanto per colpa di Fini.
Il quale, per il Cavaliere e il Senatùr, sta bluffando e va quindi smascherato al più presto. La sua truppa è tutt’altro che unita e un conto è parlare con le colombe Moffa, Urso, Sbai, Consolo e tanti altri; un altro è farlo con gli ultras Bocchino, Granata, Briguglio e Perina. Stanarli: questa la mission degli alleati di ferro che considerano i futuristi un’accozzaglia le cui contraddizioni interne sono destinate a esplodere.
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