In un paese in cui solo 170mila contribuenti dichiarano di avere un reddito superiore ai 120mila euro, un patto fiscale è la via maestra per recuperare risorse preziose. La proposta fatta dal leader sindacale più attento alle esigenze delle imprese, come Raffaele Bonanni, di «scambiare» un maggiore impegno degli imprenditori a combattere l’evasione e dall’altra un atteggiamento meno punitivo dello Stato, ad esempio nei confronti degli studi di settore, è un grande passo avanti. Soprattutto in una fase critica come l’attuale, in cui le proposte sembrano piuttosto accondiscendere a ricette demagogiche, come quella di «tassare i ricchi». Proprio ieri la Confindustria ha chiesto più risorse, vere, per le proprie aziende in difficoltà. Tutto giusto. Per carità.
Ma resta una questione centrale. Il tesoro italiano non può far miracoli. Le risorse, per definizione scarse, sono state per una parte impiegate in incentivi alle imprese, e per un’altra nel rifinanziare gli ammortizzatori sociali. È difficile ritenere che si possa fare molto di più.
Restano due leve che il governo può manovrare. La prima è quella di ridurre la spesa pubblica, per la gran parte improduttiva. Liberando così risorse oggi impiegate in modo inefficiente. E la seconda è quella di recuperare maggiori risorse. Non è immaginabile aumentare la pressione fiscale. Non lo sopporterebbe il sistema produttivo, così come sarebbe fortemente disincentivante in un momento recessivo come l’attuale. L’evasione fiscale resta un serbatoio a cui poter far ricorso. Combatterla non ha solo un significato strettamente contabile. Nessuno è più danneggiato dall’evasore se non l’imprenditore onesto. Il proprio concorrente che riesce in qualche modo a non pagare le imposte, a posizionarsi dunque oltre i limiti della legalità, è in grado di offrire i propri servizi in modo slealmente più competitivo. È la moneta cattiva che scaccia quella buona. Discorso, evidentemente, analogo per il lavoro in nero. L’utilizzo di manodopera a tariffe contrattuali inferiori rispetto a quelle legalmente applicate e con tutele ridotte, distrugge la sana concorrenza di chi si attrezza a competere nella legalità.
C’è però sulla battaglia all’evasione un grande equivoco. Essa non si combatte rendendo la vita più difficile ai virtuosi. Non si colpisce ingessando il sistema produttivo con vincoli burocratici costosissimi per le imprese, soprattutto le più piccole. Non si abbatte invertendo l’onere della prova: mettendo cioè l’impresa e l’imprenditore con le spalle al muro chiedendogli di difendersi dalla presunzione di colpevolezza fiscale. Per questo è necessario un grande patto. Ha ragione Bonanni.
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