Cronaca locale

«Paura? Scendo le scale e stacco il cervello»

Sulle banchine decine di agenti e sorveglianti. I passeggeri: solo quando esci ti senti al sicuro

Roberto Bonizzi

Metropolitana, il giorno dopo. Dopo Londra, dopo gli attentati che hanno colpito al cuore la City britannica. Sotto terra con chi, più o meno sprezzante dei rischi, su quelle rotaie è costretto a spostarsi. Per andare a lavorare. Per gli ultimi acquisti a prezzi scontati prima di partire per le vacanze. Per portare i figli dai nonni. Per l’ultimo esame all’università. Per raggiungere l’aeroporto.
In carrozza insieme ai pendolari che ogni giorno si muovono sotto la pelle di Milano, nella pancia delle gallerie nate per semplificare la vita agli abitanti della città. Gallerie che, in tempi di terrorismo internazionale e allerte salite ai massimi livelli, possono diventare il punto debole del sistema di sicurezza. Nonostante gli agenti schierati (polizia, carabinieri, guardia di finanza), l’occhio perpetuo delle telecamere a circuito chiuso e i dipendenti dell’Atm schierati fuori dai gabbiotti, come in attesa del generale che passa in rassegna la truppa. Il generale c’è, ma non si vede. È un flash, minuscolo e gigante, controllabile e inconscio. Presente nella testa di ognuno. Si chiama paura.
Il giorno dopo non si può viaggiare in metropolitana senza rivedere ovunque le immagini di Londra. Gli schermi collocati sulle banchine per ingannare l’attesa rimandano dieci, cento volte le stesse sequenze. Le lamiere squarciate. La donna con il volto pieno di sangue e la coperta sulle spalle. Blair in conferenza stampa. Oggi, più che mai, sarebbe meglio se il treno arrivasse in fretta. Ore 8,20, piazzale Loreto. La calca è quella di tutte le mattine. Non c’è uno spazio libero. Né sui vagoni della linea rossa, né su quelli della linea verde. «La vita continua» spiega una ragazza bionda con il tubo da architetto che spunta dallo zaino all’amica che le fa notare un’altra volta: «Oggi mi sembra siano tutti più nervosi». L’impressione si perde nel rumore della galleria attraversata a forte velocità con i finestrini abbassati. Gli occhi dei vicini si voltano per un attimo e sembrano annuire all’unisono. Poi ognuno torna a galleggiare nel brodo dei suoi pensieri, a dormire dietro gli occhiali da sole, a leggere il giornale.
Tutte le prime pagine, aperte e svolazzanti, replicano le stesse immagini: morte e distruzione. «Siamo costretti a non pensarci - dice Paolo, 29 anni, praticante in uno studio da avvocato del centro -. Scendi i gradini e stacchi il cervello. Già dall’11 settembre del 2001 è così, la paura c’è. Oggi, poi, tirerò un sospiro di sollievo solo quando risalirò in superficie». Come una medicina che bisogna prendere per forza: «Chiudi gli occhi e fai più veloce che puoi», diceva la mamma da piccoli. Oppure non pensarci. Come due colleghi che, da Centrale a Moscova, discutono di questioni di scrivanie e mezze bugie non dette. Alzano la voce, ai arrabbiano. Fare rumore per non sentire la paura.
«Io oggi il metrò non lo prendo nemmeno gratis». La vocina, quella di una giovane commessa di un negozio di abbigliamento, spunta dal fiume di pendolari che scendono dal regionale in arrivo da Como alla stazione Cadorna. «Certo, tanto tu sei distante cinque minuti a piedi - replica l’amico -. Io mica posso andare fino a piazzale Lotto, dovrei prendere mezza giornata di ferie». Forzati della metropolitana. Come Lucia, 19 anni, maturità appena finita e un viaggio premio prenotato da mesi. «Vado a Londra con la mia amica Daniela - sale a Lanza, si trovano in Centrale, poi in pullman fino a Orio al Serio -. Biglietto Ryanair, dieci euro, comprato ad aprile. Due settimane, mica potevamo rinunciare così. Paura? Più che altro è stata dura convincere i miei genitori, ma alla fine ce l’ho fatta».
Le bandiere sono a mezz’asta. Nei palazzi della politica si osserva il minuto di silenzio. La metropolitana non si ferma. Viaggi regolari, dal mattino alla sera, da capolinea a capolinea.

Portandosi dietro il suo carico di paura.

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