Pdl in ansia: dietro le toghe i poteri forti

Per la maggioranza l’offensiva dei pm è solo lo strumento di ben altri nemici del governo, dalla finanza ai grandi gruppi editoriali, per bloccare le riforme. Sospetti sui finiani: predicano fedeltà ma preparano il dopo Berlusconi

Roma«Ho votato no alla fiducia, ma con molta sofferenza», scherzava mercoledì Ugo Sposetti, parlamentare del Pd. La ragione della sofferenza non è difficile da capire: non è certo la tenerezza verso Claudio Scajola, firmatario del decreto incentivi sottoposto a voto di fiducia, né un’improvvisa simpatia dell’ex tesoriere Ds per il governo Berlusconi. È la preoccupazione con cui il Pd guarda alla crisi della maggioranza e alle tempeste giudiziarie che si stanno scatenando attorno ai suoi uomini.
Ha un bel ripetere il suo mantra, Pierluigi Bersani: «Non cerchiamo le elezioni, ma nemmeno le temiamo», come ha detto anche ieri. Il problema è che solo la prima parte della frase è vera: non le cercano, e soprattutto non le vorrebbero trovare, in tempi ravvicinati. Certo, le spaccature e le risse nel Pdl o i fortunati rogiti di qualche ministro magari non giovano granché alla popolarità del centrodestra, ma resta il fatto che il Pd è messo peggio. E gli ultimi sondaggi riservati confermano che, se pure Atene piange, nessun voto si trasferisce su Sparta.
L’ipotesi che Berlusconi possa cercare di far saltare il banco per tornare alle urne spaventa. È troppo presto: mancano le alleanze e non c’è neppure un candidato premier. Anzi, nell’opposizione si continua a litigare anche su come trovarlo, il candidato: la minoranza di Veltroni e Franceschini vuol rilanciare in pompa magna, al seminario di Cortona questo week end, le primarie come obbligo inviolabile. E gli aspiranti candidati non mancano, da Nichi Vendola (al momento ben visto anche da Veltroni) a Di Pietro, che ogni due per tre ricorda al Pd che quel benedetto candidato premier va trovato subito. «E se si va al voto chi caspita candidiamo?», si chiedeva ieri un deputato scoraggiato. «L'unico giusto ora è Mario Draghi», rispondeva un collega. Lasciando perplesso l’interlocutore: «Quello di Goldman Sachs? Bella idea. L'80% degli elettori non sa chi sia, e agli altri sta antipatico».
Un dalemiano cinico traccia questo scenario: «Se il Pdl si spacca e si va a elezioni anticipate va a finire che Fini molla Berlusconi e viene con noi, facendoci perdere tre-quattro punti secchi. Mentre Casini ci fa marameo e si allea con Berlusconi, che ovviamente rivince». L’ex Ppi Fioroni, ormai in grande sofferenza dentro un Pd «troppo diessino», ieri confabulava animatamente con Casini. L'idea, spiega un parlamentare ex Pd già passato all'Udc, è quella di «uscire dal Pd portandosi dietro almeno una ventina di deputati, fare un gruppo autonomo e trattare con Casini le posizioni dentro il futuro Partito della Nazione. Ma per fare tutto questo serve tempo, almeno i prossimi tre anni». E se non ci fossero?
L’unica consolazione, confessa qualcuno, è la crisi: le Borse vanno a picco e l’euro trema, «in una situazione così Napolitano le elezioni anticipate non le consentirà mai, sarebbero una totale incoscienza». E così, nei capannelli del Transatlantico, affollati di potenziali disoccupati, si riaffaccia il rassicurante fantasma del «governo tecnico».

Nel Pd si guarda con speranza al silenzio di Tremonti, alle aperture di credito che gli ha fatto la corazzata di Repubblica, ai suoi rapporti cordiali con big del partito come Bersani e D’Alema. Meglio questo che il voto, comunque.

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