Perché non rinuncerò alla crociera de «il Giornale»

di Mario Cervi

Dopo trascorsi di assiduo giramondo ormai mi muovo poco, e quel poco malvolentieri. Ma l’idea d’una crociera con gli amici del Giornale l’ho accolta con vero piacere, direi quasi con entusiasmo. Mi ha ridato la voglia di viaggiare perché non d’un viaggio qualunque si tratterà, ma d’una festa degli affetti che me ne ricorderà altre del passato, e che di quel passato mi restituirà, sono sicuro, sensazioni ed emozioni. Conoscere di persona i lettori è, per un giornalista, un privilegio. Di solito dobbiamo contentarci, noi della carta stampata, di scambi epistolari o di incontri casuali (ma anche i divi televisivi, pur disponendo d’un palcoscenico ad altissimo impatto, devono accontentarsi dell’Auditel mentre l’attore di teatro ha la risposta immediata e diretta della platea).
M’è capitato anche altre volte di trovarmi in mezzo a quello che voglio chiamare, se non vi dispiace, il popolo del Giornale. O per un viaggio dei tempi andati - e spesso ci eravamo rammaricati, tra di noi per la rinuncia a quelle iniziative - o perché avevamo indetto sottoscrizioni dopo qualche calamità nazionale, e i lettori venivano nei nostri uffici a portare le loro offerte. Come definire, sinteticamente il popolo del Giornale? La mia definizione, banale fin che si vuole, magari riduttiva, ce l’ho. È la brava gente, la brava gente che non fa chiasso, non organizza cortei, non agita striscioni, traversa la strada con il verde, rispetta l’autorità, paga seppure mugugnando le tasse, lavora, ha fede nei valori tradizionali, e pensa che per i bambini delle elementari il grembiule sia una buona cosa.
Di questi cittadini laboriosi e disciplinati - e perciò irrisi dalla gauche au caviar - si parlava come della «maggioranza silenziosa». Termine demonizzato - in Italia, non così in Francia - e ormai improponibile. Alla invisibile e muta «maggioranza silenziosa» il Giornale volle, 35 anni or sono, dare una voce. La fedeltà dei tanti che ci sono stati e ci sono vicini dimostra che lo sforzo di allora e di oggi non è stato inutile.
Ho voluto, con questa premessa, sintetizzare alcuni perché del mio sì caloroso alla crociera. Ne ho fatte tante, e le ho sempre considerate un’ottima vacanza o meglio ancora una parentesi durante la quale si può staccare la spina dalla quotidianità. Si è coccolati e assistiti come bambini esigenti. Da anni - faccio eccezione adesso per il Giornale - avevo smesso con le crociere: mancandomi ormai, per età e per svogliatezza gastronomica, la possibilità di profittare adeguatamente d’una delle grandi opportunità che le crociere di livello offrono. Quella di godere intensamente dei piaceri della tavola. O se preferite un termine plebeo, quella d’abbuffarsi. Sulle buone navi la cucina è sempre all’altezza della nave, e anche meglio. Con un ritmo incessante di pasti e stuzzichini che avrebbe fatto la felicità del mio rimpianto amico - e grande divulgatore d’italiano e di gastronomia - Cesare Marchi: piuttosto ghiotto di dolci e perciò dai colleghi maliziosi soprannominato «la volpe del dessert».
Non voglio indugiare sulla bellezza e sull’interesse dei luoghi che la crociera toccherà, che a molti saranno già noti, ma che è sempre una festa rivedere.

Non c’è nel pianeta, nonostante tutte le Maldive possibili e immaginabili, un’area che come il Mediterraneo riunisca tanta bellezza della natura, ricchezza di storia, tesori di cultura. La Grecia mi è particolarmente cara. Nel ricordo della ragazza greca che mi ha accompagnato nella vita e che non c’è più.

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