Controstorie

Petrolio e gas La ricchezza russa è nata nella Siberia dei gulag staliniani

L'ex dittatore, già prigioniero degli zar, aveva capito come sfruttare le risorse del grande Nord. Che contribuisce per il 40% al Pil, diventando la cassaforte di Mosca

Marzio G. Mian

Un punto cruciale sulla mappa russa è Kureika, dove lo Yenisei sfocia nell'Artico: un villaggio oggi quasi abbandonato, ma è dove la storia cominciò a prendere una brutta piega. Qui l'educazione siberiana d'un pericoloso delinquente comune e agitatore politico germoglia fino a diventare la visione criminale d'un dittatore. Nei suoi quattro anni d'esilio nell'isba di Kureika, spedito dalla polizia segreta dello zar, il giovane Stalin scopre come trasformare la prigionia in opportunità, il gulag in strumento di terrore politico e in volano strategico dell'Urss. Se oggi la Russia di Vladimir Putin rimane potenza mondiale è soprattutto grazie al serbatoio di ricchezze inizialmente sfruttate nel Grande Nord - con una quantità industriale di dissidenti schiavizzati - dal faraone dei Soviet, il quale, alla vigilia della Rivoluzione, aveva sperimentato in prima persona, la durezza della regione, l'inefficienza con cui l'amministrazione zarista la governava e le immense potenzialità economiche. Secondo il Financial Times l'Artico russo custodisce una cassaforte di petrolio e gas pari a 20 trilioni di dollari, in grado di garantire a Rosneft e Gazprom le uniche compagnie autorizzate - una produzione fino al 2050. Il 40% del Pil nazionale arriva dai pozzi oltre il circolo polare. La produzione complessiva russa nel 2016 è stata di 547,3 milioni di tonnellate di petrolio e di 555 miliardi di metri cubi di gas.

Il 27 aprile del 2017 il capo della Rosneft, Igor Sechin, attendeva a meno 18 il segnale dal Cremlino in video conferenza. «Trivella!», ha ordinato Putin. «Trivella!», ha ripetuto Sechin ai suoi ingegneri. E la trivella ha cominciato il suo viaggio di cinquemila metri sotto il ghiaccio. Tsentralno-Olginskaya-1 è la piattaforma più a Nord dell'Artico russo, più vicina al Polo Nord che a qualsiasi città continentale. Per costruirla, nel mare di Laptev, hanno trasportato materiale con i rompighiaccio nucleari per 3.600 chilometri. È dotata d'una tecnologia in grado di perforare la roccia sottomarina e di penetrare orizzontalmente per 15 chilometri fino a pescare anche l'ultima goccia dei circa 10 miliardi di tonnellate di petrolio stimate nell'area. Con le sanzioni dopo i fatti d'Ucraina e Crimea, Stati Uniti e Unione europea pensavano di colpire la Russia e Putin proprio nel serbatoio, nei progetti d'estrazione nell'Artico, togliendo capitali e tecnologia a Rosneft, Gazprom e Novotek, polmoni dell'economia post sovietica. Una batosta per tanti colossi occidentali. Sloggiata anche la Exxon Mobil dopo che aveva appena siglato al Cremlino un contratto da 300 miliardi di dollari con la Rosneft. La firma era quella del ceo Rex Tillerson, poi arruolato da Trump come Segretario di Stato.

Anziché strozzare gli oleodotti, le sanzioni hanno permesso alla Russia di fare passi da gigante nel settore, d'acquisire un'autarchia tecnologica in grado di generare profitti anche con il barile fermo a 50 dollari, cosa che ad esempio le compagnie americane non possono permettersi in Nord Dakota o in Alaska. «Siamo come una valanga», dice Sergey Vakulenko, a capo dell'unità strategia e innovazione di Gazprom al quartier generale di San Pietroburgo, dove si controllano in remoto 600 pozzi nel Paese: «Più spremiamo, più cresciamo. Tra il 2013 e il 2016 abbiamo estratto il doppio di tutti i paesi Opec messi insieme». Le tre maggiori regioni petrolifere artiche, Yamal-Nenets, Nenets e Repubblica di Komi, nel 2016 hanno pompato il 17 per cento in più rispetto all'anno precedente. Circa cento milioni di tonnellate di petrolio nazionale arrivano dalle piattaforme artiche onshore e offshore, queste ultime in aumento del 23 per cento nel 2017. Praticamente tutta la produzione di gas arriva dall'Artico, con una riserva di 43 trilioni di metri cubi e una potenzialità di 73 trilioni estraibili. L'85 per cento del gas russo è estratto nella penisola di Yamal, dove s'è costruito in quattro anni un porto da 29 miliardi di euro, dodici dei quali provenienti da Pechino: infatti l'obbiettivo è alimentare il Paese dove è maggiore la richiesta di gas naturale liquido.

L'Arabia Saudita del Grande Nord è il Khanty-Mansiysk, regione subartica della Siberia occidentale, oltre gli Urali. Nel 2016 ha prodotto 240 milioni di tonnellate di petrolio, il 60 per cento del totale russo. Un territorio grande come la Francia, abitato da un milione e mezzo di persone, praticamente asfaltato da una coltre di bitume frutto di decenni di sfruttamento selvaggio. Nella repubblica di Komi, nel 1994, si sono spezzati cinquanta chilometri di oleodotto, 100mila tonnellate di petrolio sono finiti nella tundra e nei fiumi Kolva, Usa e Pechora. Il più grave incidente nella storia petrolifera mondiale. Ma poco è cambiato. «Le perdite sono quotidiane, non cresce più nulla, spuntano solo nuove raffinerie e nuove chiese», dice Petr Shelomovsky, uno dei pochi fotoreporter che ha potuto documentare l'apocalisse ambientale dell'Artico russo.

A cent'anni dalla Rivoluzione è giusto ricordarne il risvolto artico. Metà del capitale del Secondo piano quinquennale di Stalin, 1932-1937, è investito nel Nord Est dell'Urss, così come i campi di lavoro vengono tutti concentrati nella Siberia settentrionale, e l'Artico sovietico passa da 656mila abitanti del 1926 ai quasi due milioni del 1935; nel solo Far East si passa in nove anni da 104mila a 200mila. «Nell'ossessione artica di Stalin e dell'Urss, c'è inoltre un elemento che non è strategico, ma strettamente leninista», dice l'esploratore russo Victor Boyarsky, grande amico di Putin: «E cioè il rapporto ideologico con la Natura. Superare gli ostacoli per lo sfruttamento economico e materiale le distanze, il freddo, il ghiaccio s'adatta alla narrazione rivoluzionaria della vittoria della scienza umana sul mondo naturale e sulle superstizioni. La Natura non esiste, esiste solo l'uomo sociale che la sfrutta per la prosperità collettiva». Il mito della frontiera come spinta propulsiva del comunismo scientifico. Basta poesie e romanzi sul vuoto immobile siberiano e le betulle, ora bisogna raccontare la prosaica vittoria del comunismo razionale sull'ambiente. Lo scrittore bolscevico Vladimir Zazubrin immagina la Siberia piegata dall'uomo nuovo: «Lascia che la bestia verde in Siberia sia vestita nel cemento armato delle città, nel cemento delle fabbriche chimiche, cinta dal ferro e da mille binari. Lascia che la taiga sia bruciata. L'autore de La Scheggia (pubblicato per la prima volta nel 1989) diventerà uno dei più potenti narratori del terrore rosso in Siberia, raccontato dalla parte dei carnefici.

Il dogma materialista ha pianificato lo sfruttamento a scapito d'una apocalittica devastazione ambientale e d'un genocidio. Aleksandr Solzhenitsyn lo chiama «la madre dei gulag»: in 20 anni Stalin colonizza l'arcipelago Solovetsky sul Mar Bianco con 150mila prigionieri politici, di cui oltre cinquantamila non torneranno mai a casa. Poi arrivarono Belomorkanal, le miniere di nickel di Norilsk, quelle di carbone di Vorkuta e le più feroci, le miniere d'oro, platino e stagno di Kolyma, 80 gulag sparsi nella taiga, tomba per culachi, polacchi, ucraini, dissidenti, intellettuali. Nel conteggio delle vittime del comunismo la voce Kolyma contribuisce con un milione di morti tra il 1930 e 1950.

«Ci sono cose che un uomo non dovrebbe mai vedere e sapere, e se le ha viste e conosciute meglio per lui morire», scrive Varlam Shalamov nei Racconti di Kolyma.

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