Mentre persiste nel silenzio sulla casa del cognato a Montecarlo, domani Gianfranco Fini picconerà un altro dei misteri che lo circondano da quando ha deciso di mettersi in proprio. È un buco nero nel programma di Futuro e libertà quanto nei pensosi workshop della fondazione Farefuturo: si tratta del programma finiano per il Nord. L’arrivo del presidente della Camera a Milano, patria di Silvio Berlusconi e roccaforte della Lega, diraderà la nebbia che grava su un aspetto così qualificante del nuovo soggetto politico.
In questi mesi Fini si è occupato soltanto del Mezzogiorno. Ha stretto un patto con quel campione di coerenza politica che risponde al nome di Raffaele Lombardo e il suo Movimento per le autonomie, partecipando alla nuova giunta-minestrone in Sicilia assieme a Pd e Udc. Ha di fatto impedito, attraverso le mosse di Adriana Poli Bortone, la vittoria del Pdl alle regionali in Puglia. I suoi nuovi colonnelli sono tutti meridionali: i capigruppo Italo Bocchino e Pasquale Viespoli vengono dalla Campania, Carmelo Briguglio, Fabio Granata e Giulia Bongiorno dalla Sicilia e pure Adolfo Urso è catanese di adozione, Baldassarri è marchigiano, Flavia Perina romana de Roma. La stella polare di Fini è la stella del Sud.
Ancora ieri il numero uno di Montecitorio ha ribadito che «la tenuta del governo dipenderà da quale riforma della giustizia verrà presentata, da quale pacchetto per il Sud verrà proposto e da come si intende applicare il federalismo fiscale». E del Nord, che cosa pensa? Qui la faccenda si complica, è un bell’indovinello. Sui grandi temi che interessano le regioni settentrionali il mutismo di Fini e dei suoi è assordante. La questione settentrionale è aperta da anni nella sinistra, ormai ridotta a governare qualche amministrazione locale di serie B, e sta per aprirsi anche nel neonato Fli. Che cos’hanno da dire i ribaltonisti siciliani, paladini del pubblico impiego e del centralismo statale, al popolo delle partite Iva? L’esordio finiano non è felicissimo: ieri ad Asolo, provincia di Treviso, feudo dell’imprenditorialità nordestina, Fini non ha trovato di meglio che proporre aumenti di tasse, come fecero Prodi e Visco. «Tassare le rendite finanziarie del 25 per cento», il doppio dell’attuale trattamento fiscale. Auguri.
Con il Nord, finora Fini ha fatto il «signor no», un ruolo che gli riesce magistralmente. Guardandosi bene dal chiarire ciò che vuole, al contrario ha picchiato duro su ciò che non vuole. Non vuole il federalismo fiscale così come è stato concepito perché rischia di «alimentare speranze di piccole patrie preunitarie» e «i costi della riforma non sono stati determinati», anche se è «una scelta irrinunciabile» e, manco a dirlo, «un’occasione soprattutto per il Sud». Non vuole che la Lega Nord mantenga il peso avuto dagli elettori, perché «la storia prima che la geografia insegna che la Padania non esiste». Non vuole che il centrodestra sia «appiattito sulle posizioni di un alleato con base regionale». Non vuole ascoltare le ragioni degli allevatori: «Non possiamo limitarci a difendere in modo sbagliato gli interessi di chi ha adottato comportamenti antieuropei nel mercato del latte».
Le sue ricette sono grigie come la nebbia padana. Per realizzare il federalismo fiscale bisognerebbe «associare governatori e sindaci di tutto il Paese alla decisione su quello che si dovrà fare». Il contrasto all’immigrazione clandestina, una piaga che ha colpito soprattutto le regioni più produttive e che fino a un anno fa era un cavallo di battaglia della destra, ora «deve comprendere anche l’integrazione». L’economia va aiutata perché «bisogna tornare a crescere», ha ripetuto il leader del Fli a Mirabello. Ma in che modo? Con quali misure? Mistero fitto.
La squadra di Fini è forte nello spezzare il gioco altrui e carente nel rilancio. I problemi sociali, dal mercato del lavoro alle relazioni sindacali, «vanno affrontati con giudizio». Bisogna «fornire risposte alle categorie da ascoltare». «C’è da immaginare la condizione in cui il Paese possa tornare a crescere e produrre ricchezza da dividere», aveva detto al Foglio nell’ultima intervista prima della scissione.
I temi di Futuro e libertà, nel quadro dell’antiberlusconismo di fondo, sono la cittadinanza e l’integrazione degli immigrati, la laicità dello stato e i diritti delle coppie gay, il gioco di sponda con il capo dello Stato e con la magistratura, la «green Italy» e la «green economy».
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