Cultura e Spettacoli

Piace «Bellissime», non l’eccesso d’ideologia

Maurizio Cabona

da Venezia

«C'erano donne libere già duemila anni fa. E ci sono donne che non saranno libere mai». Parole di Luciana Peverelli in un programma tv d'una trentina d'anni fa, che Bellissime (seconda parte), il documentario di Giovanna Gagliardo ieri presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, ha riportato all'ordine del giorno. Col suo senso del destino, non del progresso, l'osservazione della Peverelli è il maggior elemento di contrasto con la tesi «democratica» (ogni donna può) della Gagliardo, che ha costruito sia Bellissime (Mostra di Venezia, 2004), sia Bellissime (seconda parte) come inno visivo d'una marcia prima lenta, poi trionfale di tante Aide verso l'emancipazione.
La prima parte di questa avventura si presta alla glorificazione. Infatti ogni potere, specie se consolidato, è superato, dunque ingiusto. Solo che il potere cambia di mano, non di natura. Insomma cambia solo chi sta sopra e chi sta sotto, ma la Gagliardo crede che quella che racconta non sia una fase dell'eterna lotta per il ricambio delle élite. Ci vede il raggiungimento - fra legge sul divorzio e legge sull'aborto - dell'eguaglianza. Che però dura un attimo, proprio come l'allineamento di due auto durante un sorpasso...
Naturalmente un documentario, oltre che sostanza di contenuto, è apparenza estetica. Ebbene, le immagini della Gagliardo perdono fascino con l'avvicinarsi ai giorni nostri. La colpa non è sua, perché si tratta di un collage vasto (tre ore), frutto di lavoro vastissimo. Allora sono le riprese tv in bianco e nero più suggestive di quelle a colori? Sono gli operatori di una volta più bravi di quelli di adesso? Sono le canzoni di Patty Pravo più evocative di quelle di Gianna Nannini? Anche. Ma soprattutto la suggestione delle immagini è in funzione dell'età loro e di chi le guarda. Milan Kundera ha detto di commuoversi vedendo le foto dell'ingresso di Hitler a Praga, non perché sentisse la sua nostalgia, ma perché quelle foto gli ricordavano la propria infanzia. Quindi l'emozione dello spettatore oscilla con l'intensità dell'immedesimazione. E poi c'è il fatto che la danza delle Kessler, in pudica calzamaglia nera, è già antica, mentre la danza della Carrà, in impudiche calze chiare, è vecchia, per ora.
Inoltre c'è la fine dell'incanto politico. Le «rivoluzioni» (anche quella femminile così fu chiamata, del resto è l'unica a durare ancor oggi) non mantengono tutte le promesse. Proprio la tv di oggi, meta di molte donne disposte a tutto per apparirvi, ne mostra il compromesso/regresso, mentre in nessun momento la «maschilista» tv di Bernabei permise il degrado della donna come quello cui siamo abituati. Anche abbrutirsi è un diritto? Si direbbe di sì, ormai. I diritti portano a questo, se si dissociano dai doveri. La libera sessualità è diventata deleteria per tutti non per ragioni morali, variabili da persona a persona, ma perché si è scissa dalla fecondità, intaccando il concetto di comunità nazionale. Gli italiani sulle statistiche paiono sempre oltre cinquanta milioni, come all'inizio della storia che la Gagliardo racconta, solo che otto milioni di loro sono tali per passaporto e basta. Chiare le conseguenze del declino demografico, cui anche la legge sull'aborto ha contribuito. E dell'invecchiamento e indebolimento della nazione patiscono anche delle donne che la Gagliardo elogia, perché la forza del numero sta metodicamente passando dalla parte di altre comunità e altre religioni, ben più antagoniste della «liberazione della donna» di quanto lo fossero cattolicità e italianità. In questo secondo episodio, di ciò la Gagliardo non parla. L'Italia che racconta, infatti, era italiana a ogni effetto.

Se ci sarà una terza parte di Bellissime, alla Mostra del 2007 o del 2008, andrà però posta la questione, che anche il film di Alfonso Cuarón, I figli degli uomini, in concorso ieri, ha colto nell'essenza, con la frase: «La fine del mondo è cominciata quando negli asili d'infanzia è calato il silenzio».

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