Picconate sul lavoro

Il governo Prodi ha ormai reso evidente la sua politica regressiva in tema di lavoro e di protezione sociale. Per quanti sforzi faccia il Corriere della Sera nel cercare di descrivere le virtù dei cosiddetti «riformisti» nella compagine di governo, è proprio uno di loro a rappresentare una linea di assurda controriforma.
Paradossalmente, questa viene perseguita proprio nel momento in cui i dati offerti dalla statistica pubblica evidenziano gli effetti positivi delle riforme del lavoro e delle pensioni. Secondo l'ultima rilevazione Istat tra luglio 2005 e luglio 2006 si sono prodotti ben 536mila posti di lavoro aggiuntivi in un contesto di moderata crescita economica. Abbiamo infatti conseguito il massimo storico di occupati (oltre 23 milioni) e di tasso di occupazione (quasi 60%) mentre l'incidenza della disoccupazione è scesa al 6,5%. Hanno reagito positivamente i giovani, le donne e gli anziani così come il Mezzogiorno ha registrato un incremento di 144mila posti senza il concorso della componente immigrata. In questo contesto il lavoro a termine rappresenta solo il 13%, del quale almeno la metà è attribuibile ai contratti a contenuto formativo che quasi sempre proseguono come lavori permanenti. Siamo ovviamente ancora lontani dagli indicatori di una società attiva ma la giusta direzione è indicata dal diverso rapporto tra l'incremento della ricchezza e quello dell'occupazione. Sarebbe necessario attuare appieno e completare tutte le riforme che hanno avuto ad oggetto lo sviluppo del nostro capitale umano, comprese forme di incentivazione alla maggiore produttività e modalità di protezione attiva e responsabile dei disoccupati.
Il governo, al contrario, ha commesso in primo luogo il grave errore di bruciare l'intervento sul cuneo fiscale senza collegarlo ad un’intesa tra le parti sociali sullo stretto rapporto tra salari e produttività. Diventa ora patetica l'intenzione di Confindustria di conseguire un simile accordo senza poter disporre delle risorse necessarie per incentivare le componenti premiali della retribuzione negoziate, individualmente o collettivamente in azienda. Pesante è stata poi la stangata contributiva che ha incrementato il prelievo a fini previdenziali per i lavoratori dipendenti, gli autonomi, i parasubordinati e i contratti di apprendistato. Odiosa è apparsa la misura rivolta ad incentivare il prepensionamento lungo dei lavoratori Fiat destinati ad uscire dal mercato del lavoro non ancora cinquantenni. Sbagliata è la norma che favorisce il ricambio generazionale nelle imprese perché concorre nei fatti ad accorciare l'età di lavoro. Preoccupante è la disposizione che attribuisce allo Stato il compito di definire indici di «congruità» del fattore lavoro per la produzione di beni e servizi, invadendo un tipico ambito dell'autonomia organizzativa dell'impresa.
Sono però ancor più allarmanti gli impegni presi dal ministro del Lavoro per limitare l'uso dei contratti a termine, per correggere profondamente la legge Biagi e per superare l'innalzamento dell’età di pensione prodotto dalla riforma Maroni. A ciò si deve aggiungere l'intenzione della maggioranza parlamentare di varare una riforma del processo del lavoro destinata ad incrementare il contenzioso, a disincentivare forme di rapida composizione delle liti come l'arbitrato e la conciliazione, ad estendere il campo di applicazione del ben noto articolo 18.

Il quadro insomma è chiaro e tempi bui si annunciano tanto per l'impresa quanto per il lavoro in un Paese ove il governo antistoricamente privilegia la natura antagonista dei rapporti di produzione.
*parlamentare di Forza Italia

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