Pirandello per il Duce mise il fez a sonagli

A differenza della maggior parte delle biografie che si limitano a un ritratto compiaciuto, a volte agiografico, sorvolando su vezzi e vizi per suscitare il morboso interesse del lettore, il bel libro che Matteo Collura ha dedicato a Pirandello (Il gioco delle parti, Longanesi, pagg. 354, euro 18,60) è la più appassionata delle indagini a ritroso (il libro sarà presentato questa sera al festival di Como «Parolario», alle ore 21 in Piazza Cavour). Noto per i suoi studi su Sciascia, compresa la biografia Il maestro di Regalpietra, Collura affascina i lettori per la sua capacità di coniugare duttilità giornalistica e talento letterario.
Il gioco delle parti è un’inchiesta commossa e dolente sulla personalità schiva e tormentata di un uomo solo, alle prese con le risorse di un’arte che si confondeva, si sovrapponeva, si intersecava con la sua vita al punto da precludergli altre immagini se non quelle che, dal profondo, si riverberavano come una minaccia nel suo studio. Dove, anche di giorno, si allungavano le ombre della notte e l’antico sapore della terra di Girgenti gli giungeva come un’eco macabra e malata nel pianto dapprima sommesso e poi esploso nell’urlo di Antonietta, la sposa demente, che si lamentava come una prefica dietro quella porta chiusa.
Ma tutto ciò, direte voi, lo sapevamo già. E io stesso, prima di leggere questa sconcertante testimonianza che ci giunge a tanti anni di distanza non solo dalla morte del nostro grande autore, ma anche da tutte le notizie che finora avevano informato la sua scarna biografia, credevo non fosse possibile acquisire qualcosa di radicalmente diverso sulla sua parabola terrena. Sbagliando, perché, dalla prosa limpida e circostanziata di Collura emerge un Pirandello ben più inquietante dell’immagine che ci è tramandata da uno stinto dagherrotipo di famiglia come dallo spoglio, tenerissimo e ingenuo, del suo epistolario con l’infedele Marta Abba, l’interprete ideale del suo teatro che ne fiaccò la resistenza imponendogli come un castigo ineluttabile la sua sola presenza sul tracciato rettangolare della scena considerando l’amore del Maestro alla stregua di una patetica follia senile.
Sapevate, a esempio, che il 29 ottobre 1935, meno di un mese dopo lo storico annuncio del Duce che comunicava l’inizio della campagna d’Africa, l’autore del Fu Mattia Pascal si presentò all’«Argentina» in divisa inneggiando da par suo a Mussolini che ne pesava inquieto ogni parola nella penombra del suo palco? Solo oggi, grazie a Collura, sappiamo che il grande artigiano della parola, rivolgendosi a colui che riteneva il grande artigiano di un impero destinato a eternare i fasti di Roma antica, sposava in un febbrile interventismo la liberazione di quei popoli dallo schiavismo con l’avvento, sul palco, di ben altra scena di popolo.
Il teatro come espressione autentica di un’Italia destinata a svilupparsi in un avvenire che non avrebbe mai conosciuto appariva agli occhi di Pirandello la concrezione fisica di un sogno. «Tutti siamo chiamati attori di una rappresentazione governata da necessità fatali», proseguiva con slancio l’oratore che concludeva tanto eloquente omaggio alle magnifiche sorti e progressive della patria scorgendo nella politica dei fatti il segno di quel riscatto dall’amore smodato del possesso che stava stigmatizzando con furore nel capolavoro incompiuto I giganti della montagna. Un’autentica dichiarazione di guerra a oltranza nei confronti del rivale D’Annunzio che tanti anni prima, vittima anch’egli dei deplorevoli indugi della destra storica, mai riuscì a varare l’ambizioso sogno di un teatro d’arte da erigere interamente in pietra come le cavee della Magna Grecia a ridosso del lago di Albano.
Ma questa seducente imagerie letteraria che alterna con stupefacente abilità al pensiero del biografo le audacie e i trasalimenti dell’ombra cui ha dedicato la sua fatica riserva ben altre sorprese.

Non ultima la poetica visione, a un passo dalla fine, di un Pirandello squisito metteur en scène di un Amleto a uso e consumo dei nipoti giunti a festeggiarlo. Il quale spalma sul viso della prediletta Ninnì scelta a impersonare Gertrude «il rosa carnale tipico di una creatura lussureggiante». Ossia Marta, la donna inutilmente amata che miete allori di là dall’Atlantico.

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