Di Sergio Pitol, scrittore messicano classe 1933, dagli anni Novanta in Italia sono stati tradotti alcuni romanzi prima per Sellerio, poi per Sur e Nottetempo. Ma è solo una parte esigua del suo lavoro, poiché dal suo esordio, nel 1959, ha scritto molti altri romanzi e numerose raccolte di racconti. È uno di quegli scrittori, e penso a Lezama Lima e a Carlos Fuentes, per restare in America latina, che sebbene nulla impedisca loro di affermarsi anche nel nostro Paese (le ambientazioni dei racconti di Pitol sono spesso italiane), non riescono a imporsi una volta per tutte.
Ora provano a rilanciare di nuovo la sua opera le edizioni Gran Vía (che avevano già stampato nel 2015 La sfilata dell'amore), portando in libreria, per la traduzione di Stefania Marinoni, La pantera e altri racconti, arricchiti da una splendida prefazione in forma diaristica di Enrique Vila-Matas. Ed è una scelta intelligente, perché in questa antologia Pitol ha raccolto quattordici testi scritti dal 1957 agli anni Ottanta, permettendoci una panoramica dell'intera sua produzione. Ciò che subito notiamo, però, è che Pitol fin dagli esordi è rimasto legato alla sua idea di narrativa; o, più che di narrativa, di realtà. Il modo in cui costruisce i suoi racconti somiglia a un arazzo, ovvero a qualcosa che di primo acchito ci sembra un quadro perfetto ma, volgendo il tappeto, rimaniamo scioccati dal groviglio di fili che lo hanno composto. È l'idea stessa che ha della realtà, qualcosa che, pur sembrandoci chiarissimo, resta a conti fatti un mistero - mistero, o enigma, sempre a un passo dall'essere svelati, finalmente risolti.
Il metodo di questa ricerca è una fiducia nella logica, nella ragione, che solo alla fine scopriremo essere illusorie. La logica, pare dire Pitol, non fa che infittire il mistero, non ci porta altro che a volgere il tappeto, mai a sciogliere il disegno di quei fili.
Lo scrive chiaramente (e suona come una dichiarazione di poetica) nel racconto che dà il titolo al libro, che «l'irrazionale che galoppa nel nostro essere adotta in certi momenti una cavalcata così furiosa che codardamente cerchiamo di rifugiarci in quell'ammuffito ammasso di norme con cui pretendiamo di regolamentare l'esistenza, in quei vacui canoni con i quali ci sforziamo di frenare il volo delle nostre intuizioni più profonde».
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