Poca identità in un cartellone di transizione

I critici d’un tempo, e anche un po’ quelli di adesso, qualche volta, per esprimere un’incondizionata approvazione scrivevano: «Su questa esecuzione - o quest’evento - non c’è proprio nulla da dire». Perbacco, neanche una riflessione, un dubbio, un palpito da confessare? Mah, mi dicevo, o il critico è un poco rinsecchito o il fatto da commentare è privo di sorprese, di fantasia, di idee. Sul cartellone della Scala 2006/2007 non c’è proprio nulla da dire. È del tutto simile a quelli dei buoni o discreti teatri, senza un’identità, senza il rigore d’un bandolo di percorso coerente o l’ardimento d’un fascinoso disordine.
Ci sarà modo di parlare spesso in concreto d’ogni aspetto della stagione. Ma nell’opera, che più caratterizza il nostro amato teatro, si nota a primo colpo d’occhio che le produzioni della Scala sono soprattutto avanzi degli anni scorsi: tante volte ripresi, come Madama Butterfly nello spettacolo di Asari o La traviata nello spettacolo della Cavani, o come quel Così fan tutte di Hampe nelle scene e con i costumi dell’indimenticabile Mauro Pagano, che si finge inventato alla Scala ma era ripreso pari pari da Salisburgo. Nuova è naturalmente l’inaugurale, prevedibile e speriamo magnifica Aida, direttore Riccardo Chailly, da qualche decennio presentato come giovane, regista e scenografo Franco Zeffirelli da qualche lustro presentato come intramontabile, ed una compagnia di rinomati, con Violeta Urmana e Roberto Alagna: undici recite, abbastanza numerose anche se una in meno che a Narni quest’estate. Di nuovo c’è anche qualche coproduzione, che denuncia l’attuale appartenenza della Scala ad un giro di teatri non di altissimo profilo. Poi ci sono molti spettacoli venuti da fuori, il regista Carsen arriva con un suo Candide, opera faticosetta di Bernstein, ed è la terza volta che porta qui il già fatto altrove. Il piacere di far nascere e la fiducia di poter far scaturire un’originalità cedono allo spirito fieristico che accomuna l’impresariato treatrale alla buona società milanese.
Gli autori sono parecchi, le opere «di cassetta» non molte. C’è una novità di Fabio Vacchi, che è un eccellente compositore sinfonico, con Ermanno Olmi che è un grande regista di cinema e le scene di Arnaldo Pomodoro che è un magnifico scultore; dubito che sia questa la strada per far rinascere il teatro musicale, ma speriamo, almeno sono artisti importanti. Ci sono direttori della categoria «ancor giovani», ben noti nei circuiti di cucina musicale internazionale, e altri giovani davvero, come l’eccellente Ottavio Dantone, e come Daniel Harding, giustamente confermato dopo il successo ottenuto nell’Idomeneo, anche se qualche giorno fa è stato sommerso di bùu e fischi e di critiche al Flauto Magico di Vienna. C’è, infine, un parco ragguardevole di cantanti, dalla Damrau alla Dessay, da Juan Diego Flores a Daniela Dessì, con l’arrivo della Cedolins ed il ritorno di gloriose interpreti: Anja Silia in Jenufa e addirittura, spiritosamente, l’adorabile Marilyn Horne nell’edizione palermitana de La fille du Régiment che ha girato a suo tempo mezz’Italia.
Una stagione di transizione. In un teatro che ha problemi economici, di organizzazione del lavoro, di formazione d'una vera direzione artistica, si comprende: forse veri segni di rinnovamento verranno più avanti.

Però almeno uno si poteva dare: spiegare con semplicità e senza pompa le scelte. Invece il commento che accompagna il programma s’impenna sùbito annunciando come «straordinario» che dopo Aida ci sia Lohengrin. Ma perché?

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