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«Al Politeama con il mio lombardo-ligure»

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Canta nel dialetto del lago di Como, il cosiddetto laghée, ma riempie gli stadi, a chilometri di distanza, non solo nel Milanese. Segno che qualcosa, nella poeticità del testo delle sue canzoni, arriva, sostenuto da un poderoso rock, a tutti quelli che vogliono ascoltare. Davide Van De Sfroos, 44 anni, è uno tra i fenomeni musicali del momento. Sarà giovedì sera alle 21 al Politeama, con il «Pica tour teatrale», che l’artista comasco porta in tutta Italia con tappe a Bari, Lecce, Roma, Piacenza, Torino e Verona. E non fatevi ingannare dal cognome, voi che non siete di quel ramo del lago di Como. Davide è nato Bernasconi ed è diventato Van De Sfroos - dice la sua biografia non ufficiale - grazie all’intuizione del suo barbiere che, mentre Davide e i suoi amici musicisti parlavano del proprio gruppo, ha commentato «ma è tutta roba de sfroos» (di contrabbando ndr).
Come è il pubblico ligure?
«Sono stato già una volta a Genova e ebbi un bel pubblico, il teatro era pieno anche se non era grandissimo. Adesso sono molto contento di tornare».
E lo capiscono qui da noi il dialetto comasco?
«Tremezzino... si dice così per l’esattezza. È più duro del milanese, ma più musicale dal punto di vista metrico. La tentazione di usarlo è stato da subito troppo forte per non assecondarla. E chi viene ai miei concerti magari non lo capisce fino in fondo, ma è coinvolto da questa sua straordinaria musicalità».
Parliamo dei testi.
«C’è tutto quel mondo che, di solito, non viene inquadrato: playboy mancati, emigranti, contrabbandieri, mostri, leggende. Ciò che fa parte di un certo modo di vivere nei paesi del lago di Como, ma che può essere spostato in qualunque altra parte. È così che chi ascolta si immerge in un’atmosfera che tutti possono sentire vicina. Mi viene in mentre de André, la sua poetica assoluta.
De André, appunto. Quanto lo sente vicino?
«In moltissime cose, anche per l’amore per la Sardegna. E poi per l’uso di una lingua dialettale che non è chiusa in naftalina. Anzi. E che esprime sentimenti che altrimenti non si potrebbero spiegare, con una contaminazione totale tra passato e presente. Mi ricordo la prima volta che ho sentito Creuza de ma. Non ho capito niente subito. Poi l’ho sentita e risentita. Alla fine mi sono reso conto che non poteva essere che cantata così, con quella lingua così musicale del dialetto genovese.
C’è un segreto per esportare il dialetto negli stadi. Quale?
«La contaminazione, dicevo. Il contenuto iper realista dei testi, la musicalità della parole dialettale e la sonorità degli strumenti che vagano tra il rock, il folk, il jazz, con molte influenze e una gamma di suoni molto vasta. In tutto ciò il dialetto non è mai una cartolina ammuffita».
Parliamo del pubblico che viene ai suoi concerti.
«Ci sono le ragazzine con il piercing insieme con le nonne, Ci sono il metallaro, il bancario, il jazzista, il personaggio che ha appena messo le mucche nella stalla. Sotto il palco vedo genitori e figli. Non è detto che il mio progetto debba interessare a tutti, ma se piace non ha un limite di età».


Nasce prima il cantautore o lo scrittore?
«Nasco con la penna in mano, non c’è dubbio. E forse un musicista non lo sono mai diventato. Il mio compito è cantare storie, scrivere un cortometraggio con una colonna sonora».

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