In politica estera l’Italia è stimata ma non ammirata

Caro Granzotto, nel suo articolo «Battisti libero è un rospo che non si può ingoiare» lei afferma che le ragioni del nostro governo al «no» di Lula all’estradizione dell’assassino italiano «sono il segno della resa». Purtroppo siamo nella tradizione della nostra politica estera. Nel 1915 un osservatore dalmata osservava: «Gli Italiani sono campioni nel difendere gli interessi altrui». Nella prima Repubblica un ministro del Commercio estero socialista, a conclusione di un incontro con il suo omologo jugoslavo, dichiarava ai suoi più stretti collaboratori: «Bene, li abbiamo accontentati». Un ministro degli Esteri, già titolare della Difesa, sosteneva pubblicamente: «l’Italia non ha interessi nazionali da difendere». Alla Farnesina si raccomandava di «stare sempre dalla parte della Commissione a Bruxelles». E ciò avveniva sotto un governo di centro-destra, mentre il presidente della Commissione Europea era Prodi. Abbiamo avuto un presidente del Consiglio che si identificava pubblicamente nel Principe dello Stato della Chiesa e un presidente della Repubblica che prima di recarsi in visita di Stato in Germania dichiarava al settimanale Die Zeit di essere «prima sardo e poi italiano». Il massimo è stato raggiunto con l’elezione - da parte di un Parlamento a maggioranza di centro-sinistra - a capo dello Stato dell’esponente di un partito che a nome dei «proletari di tutto il mondo» aveva voluto cedere una parte del proprio suolo ai compagni Jugoslavi (fra i quali alcuni infoibatori d’Italiani a cui l’Inps pagò pensioni per «meriti partigiani»).
Torniamo a Lula. «Per una Nazione con gli attributi e che non voleva essere trattata a pesci in faccia», come lei afferma, non avremmo dovuto invitarlo alla riunione del G8 da noi presieduta nel 2009 se prima non avesse estradato Battisti. Invece abbiamo proclamato che l’avremmo fatto nonostante il suo rifiuto. Il ministro degli Esteri Frattini ha sostenuto che «Battisti se la ride delle nostre divisioni interne». Non crede, che, perseverando l’Italia nel porgere l’altra guancia, il Brasile nella fattispecie continuerà a ridersela delle nostre richieste?
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Come avrà visto, caro Giorgolo, le cose si stanno mettendo bene e dunque male per Battisti. Il pluriomicida resta in galera, la stampa brasiliana non si mostra tenera con Lula e il governo brasiliano comincia seriamente a temere il ricorso (per ora solo un «pensiero», a detta del ministro Frattini) dell’Italia alla Corte internazionale dell’Aja. Il caso Battisti è dunque una patata che bolle assai nelle mani di a presidenta Dilma Rousseff. In attesa di sapere quale sarà l’esito, resta viva la percezione di scarsa energia nella replica del ministero degli Esteri alla bravata di Lula. Replica tardiva e prudente, quando avrebbe dovuto essere immediata e risoluta. Il ministro Frattini ha agito da par suo, svolgendo diligentemente il compitino, facendo cioè tutto quanto la liturgia diplomatica prevede in simili casi. Ha agito con la feluca in testa, quando avremmo preferito che calzasse l’elmetto. Non certo per muover guerra - Frattini, figuriamoci - ma per far intendere al Brasile che non avremo difeso onore e dignità nazionale a suon di salamelecchi. È noto che il nostro ministro degli Esteri gode di molta stima, nelle cancellerie. Stima che gli viene, appunto, dall’essere impeccabilmente diplomatico. Cioè pieno di tatto, attento nell’evitare di fare cosa sgradita. Non so come la pensi lei, caro Giorgolo, ma resto convinto che nei rapporti internazionali la stima lasci il tempo che trova: serve essere ammirati, caso mai; e meglio ancora essere temuti.

E noi proprio no, temuti non lo siamo, preferendo da sempre la politica del quieto vivere o, in alternativa, della pacca sulle spalle. Anche quello, un made in Italy molto apprezzato, oltre frontiera. Come le scarpe Ferragamo e il Sassicaia.
Paolo Granzotto

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