Stavolta davvero si esagera. Noi abbiamo sempre contrastato l’onda anomala e devastante dell’antipolitica e abbiamo, al contrario, sempre rivendicato il cosiddetto primato della politica nel governo di una società moderna, ricca di interessi tra loro contrapposti. Ma quel primato la politica se lo deve guadagnare coltivando serietà e autorevolezza. E non ci sembra che questo stia avvenendo nella maggioranza e nel governo. E ci spieghiamo. La guida di un Paese industrializzato comporta mille incombenze e impegni di varia natura ma quando c’è un membro del governo per ogni nove parlamentari il segno della frantumazione dell’esecutivo e della maggioranza politica è inequivocabile. E tanto per aumentare la confusione amministrazioni centrali di antica e consolidata esperienza sono state spaccate disegnando, così, ministeri «ad personam» in cui ciascun ministro rivendica per sé un pezzetto di quell’amministrazione dilaniata. È il caso, ad esempio, del vecchio ministero del Welfare che si è diviso in tre o forse più dicasteri (quello del Lavoro, della Solidarietà sociale, delle Politiche giovanili e della Famiglia) e non sappiamo quanti altri pezzi siano volati via in direzioni diverse (il conto lo potremo fare nelle prossime settimane).
A fronte di questa polverizzazione resta, invece, il moloch del ministero dell’Economia. E nonostante un ministro, due viceministri e non ricordiamo quanti sottosegretari, si è cercato affannosamente come l’ago in un pagliaio qualcuno che potesse seguire in Parlamento la legge finanziaria perché quelli già nominati non erano in condizioni di farlo a giudizio dello stesso governo.
Chi cerca trova e così il nuovo sottosegretario incaricato di seguire la legge finanziaria è il professor Nicola Sartor, un bravo economista privo di qualunque esperienza politica e parlamentare. Probabilmente il governo dimentica che la legge finanziaria e di bilancio è l’insieme di molte politiche settoriali (fiscali, previdenziali, sanitarie, produttive, regionali per non parlare di ricerca e innovazione e via di questo passo) e a difenderne i contenuti dovranno essere chiamati i singoli ministri di settore sotto la guida politica del ministero dell’Economia. Immaginare che ci possa essere, invece, un «guardiano» tecnico per una legge come quella di bilancio che più politica non potrebbe essere, non è solo un errore, è il segno di uno smarrimento di chi non sa che pesci prendere.
Ma non è finita. La maggioranza sembra oscillare tra una deriva movimentista dove a menar la danza sono per l’appunto i movimenti di varia natura (vedi le parate parallele il 2 giugno scorso) e tentazioni autoritarie come quella sostenuta da Antonio Di Pietro che voleva un decreto legge per bloccare l’attuazione della riforma giudiziaria quasi che il Parlamento della Repubblica fosse un soggetto pericoloso da tenere a bada. E potete scommettere che dopo il decreto legge il buon Tonino avrebbe voluto anche il voto di fiducia. C’è stato bisogno dell’esperienza di Clemente Mastella per tenere, come si suol dire, la barra al centro rispettando così le prerogative del Parlamento e rifiutandosi di scrivere affannosamente nuove norme sotto dettatura di corporazioni autorevoli ma pur sempre corporazioni come quella dei magistrati e degli avvocati. Come se non bastasse, infine, il governo si è dovuto interessare anche delle deleghe che i singoli ministri devono dare ai propri vice o sottosegretari (vedi il caso del ministero dello Sviluppo) dimostrando, così, che quel metodo Cencelli deriso e bistrattato nell’ultimo decennio era un campione di serietà e compostezza nella definizione degli equilibri politici. Non amiamo né i pregiudizi né le risse ma l’impressione che oggettivamente se ne ricava da questi primi passi del governo è quella di essere di fronte a dilettanti allo sbaraglio con l’aggravante che la maggior parte dei ministri non sono dilettanti alle prime armi.
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