Roberto FabbriVedere la nostra piccola e fragile Terra da lontanissimo non è un'esperienza che si può fare senza riportarne conseguenze psicologiche anche pesanti. Edgar Mitchell, astronauta americano scomparso pochi giorni fa all'età di 85 anni, raccontò così le sue storiche giornate sulla Luna nel febbraio 1971: «Da lassù sviluppi un'istantanea consapevolezza globale (...), un'intensa insoddisfazione per lo stato del mondo, uno stimolo a fare qualcosa per migliorarlo.
Dalla Luna la politica internazionale appare qualcosa di così modesto. Vien voglia di acchiappare per la collottola un uomo politico, trascinarlo su per un quarto di milione di miglia e dirgli: guarda giù, figlio di un cane».Mitchell era così, spontaneo e originale, e amava definirsi «un cittadino interplanetario». Senza troppo curarsi che questo potesse essere poco apprezzato in ambienti patriottici. Si curava anche poco di altri giudizi, tanto da trasformarsi al suo rientro sulla Terra in un personaggio ai limiti del bizzarro, che metteva la Nasa in imbarazzo. Durante il viaggio di ritorno cominciò col raccontare ai suoi compagni che era stato «travolto da uno stato di superiore consapevolezza, che i praticanti yoga conoscono come Savikalpa samadhi, causato da un'improvvisa e intensa comprensione della realtà della condizione umana».
Il comandante Alan Shepard e il maggiore dell'Aviazione Stuart Roosa lo presero amabilmente in giro, ma lui non si lasciò scoraggiare e mentre quelli dormivano si dedicò a un esperimento di «percezione extrasensoriale» che coinvolgeva quattro suoi contatti sulla Terra: pensò intensamente a una serie di simboli su un mazzo di carte che aveva portato con sé e raccontò in seguito che 51 su 200 volte il suo pensiero era stato indovinato. Mitchell trovò questo risultato straordinario, anche se non molti condivisero il suo entusiasmo. Specialmente alla Nasa, che lasciò un anno dopo.Ma a conquistargli la dubbia fama di eccentrico (il termine perfetto, un po' scontato ma certamente assai pertinente, sarebbe lunatico) furono una serie di dichiarazioni a proposito degli alieni, forse facilitate dal fatto di aver trascorso gli anni della sua adolescenza a poche decine di chilometri da Roswell, la cittadina del New Mexico che nel 1947 fu al centro di un clamoroso caso di un presunto incidente di Ufo con tanto di rinvenimento di cadaveri di extraterrestri che il governo americano avrebbe «insabbiato». Mitchell parlò in diverse occasioni della sua certezza non solo dell'esistenza degli alieni, ma del ruolo benefico da essi svolto nella storia umana, degli Stati Uniti e sua personale. Affermò che la pace nel mondo durante la Guerra Fredda era stata garantita «per intercessione degli extraterrestri e non grazie alla diplomazia o alla potenza militare degli Stati Uniti», e che corpi di visitatori alieni erano stati «scoperti e studiati», che una «conventicola di Washington» aveva imposto il segreto sulla vicenda «per oltre sessant'anni», un chiaro riferimento al caso Roswell. La Nasa, che era stata fino al 1972 il suo datore di lavoro, si trovò costretta a replicargli che non si era «mai occupata di Ufo» e che non era mai stata «coinvolta in nessun genere di secretazione in tema di vita aliena su questo pianeta o in alcun altro luogo dell'universo».
È un peccato che Edgar Mitchell avesse di queste innocue fissazioni, perché come esploratore spaziale era stato fantastico. Alcune delle immagini delle nove ore da lui trascorse sulla superficie lunare 45 anni fa meritano di esser viste e riviste, come quella che lo mostra calciare un sasso che immediatamente partì verso l'alto in verticale a causa dell'assenza di atmosfera.
O come quella che lo vede rispondere alla sfida del comandante Shepard, che si era portato fin sulla Luna una pallina da golf per lanciarla molto più lontano di quanto sarebbe stato possibile sulla Terra, e scagliare il manico del suo badile come fosse stato un giavellotto proclamando poi di «aver vinto le olimpiadi della Luna». Un genio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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