Aiuto, il mondo si è riempito di squilibrati persino chi sfregia adesso lo fa per vanità

A Roma c'è un «giustiziere» con la lametta. E Cesare Zappulli ne trae una morale

Aiuto, il mondo si è riempito di squilibrati persino chi sfregia adesso lo fa per vanità

di Cesare Zappulli

T utto decade, perde significato, si banalizza. Il marxismo, il seno femminile, la moneta. Adesso è la volta dello sfregio, che un mentecatto, armato di rasoio, infligge sulla guancia a passanti incolpevoli, terrorizzando due popolosi quartieri romani. È alla sua ottava impresa e non si riesce a trovarne traccia, anche perché le vittime e i testimoni dei misfatti, per l'emozione o la fretta, ne danno descrizioni contraddittorie. C'è chi assicura di averlo visto saltare un'automobile o passare con un balzo da un tetto all'altro, accrescendo la paura di questo Mandrake. Perché sfregia? Perché ricorre, per un suo delirante disegno, a un tipo di affronto che, inventato a Napoli e poi propagatosi in Sicilia, ebbe una sua precisa logica punitiva? Lo sfregio fu il castigo di una «infamità», nelle varie versioni in cui la colpa si presentava nel mondo dei guappi: la seduzione non seguita da matrimonio, la rivalità in amore, le insidie a una donna maritata, l'infedeltà femminile, la violazione di un patto di malavita o sgarro, la defezione della Venere pandemia dal suo protettore. Bisognava segnare il colpevole a vita e perciò lo sfregio doveva essere «permanente»: ciò che si otteneva infilando una moneta fra due lame prima di vibrare il colpo, in modo che lo spacco fosse ampio e la cicatrice deturpante; altri, per cavarsela nella perquisizione, invece di ricorrere al rasoio, usavano limare il bordo di un pezzo di rame da due soldi fino a renderlo tagliente. Un'ingenuità, perché tanto l'esecutore o il mandante erano noti e lo sfregio, secondo il rituale, era stato debitamente preannunciato. Quando arrivava, per la vittima era quasi una liberazione. L'«infame» o la «infame» aveva pagato.

Ma questo maniaco a Roma, ripetiamo, perché lo fa? Di matti, in rotta con l'umanità e intenzionati a punirla, si conosce un bel campionario. C'è il pittore fallito che si vendica sui quadri dei musei; c'è chi versa bottigliette aperte d'inchiostro nella buca delle lettere; c'è chi mette sbarre di ferro sui binari dei treni, buca le gomme delle auto, infama il prossimo con lettere anonime. A Trieste venne in fama e passò nella canzone popolare l'«uomo vespa» (fiol d'un can) che fra San Giacomo e Roiano si divertiva a infilare spilloni nel sedere delle ragazze; ma costui era, ad evidenza, un sadico ed aveva una sua aberrante giustificazione.

È lontana da noi l'idea di impegolarci nella discussione in corso fra i dotti circa il tipo di mattana dello sfregiatore romano, anche perché ci andiamo sempre più convincendo che di tre persone che s'incontrano a caso una almeno non ha tutte le rotelle a posto. Che si tratti di schizofrenia paranoide o di fobia compulsiva non spiega molto. Il personaggio, che si è già lucrato il nomignolo di «Jack lametta», è sicuramente uno che va in giro bofonchiando fra sé e sé: «Vedranno chi sono». Alla signora Maria Grazia Gasperini, una delle sue vittime, ha bisbigliato dopo l'operazione: «La pagherete tutte».

Si sente un giustiziere, ma è smanioso di rivelarsi; e questo, prima o poi, lo perderà, perché non gli sembrerà vero di passare, ammanettato, fra la gente del Tuscolano a ostentare la sua grandezza. Il tipo umano fu descritto mirabilmente da Dostoevskii nell'anonimo protagonista delle Memorie del sottosuolo e nel suo soliloquio: «Io sono un uomo malato... un uomo cattivo; ho quarant'anni; prima ero impiegato, ora non lo sono più...

Io non solo non seppi diventare cattivo, ma non seppi diventare niente del tutto: né cattivo né buono, né furfante né onesto, né eroe né insetto...». E via cosi, per pagine e pagine. Ci pare di sentire «Jack lametta».

11 giugno 1983

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