Allarme rosso sui consumi Italia in deflazione

I prezzi ad aprile sono calati dello 0,5% su base annua: continua la spirale negativa S&P avverte: obiettivi di bilancio a rischio

Allarme rosso sui consumi Italia in deflazione

Il Paese è in deflazione e, come se non bastasse, l'agenzia di rating Standard & Poor's che valuta i Btp un gradino sopra la «spazzatura» (BBB-) ha tagliato le prospettive di crescita dell'Italia nel 2016 e nel 2017. Eppure la giornata sul fronte macroeconomico si era aperta molto bene per il primo ministro Matteo Renzi e per il titolare del Tesoro, Pier Carlo Padoan: nel primo trimestre il Pil è aumentato dello 0,3% sui tre mesi precedenti e dell'1% sullo stesso periodo dell'anno scorso.

Un dato in linea con le attese degli analisti che contiene anche alcune riscontri confortanti: una prosecuzione del trend positivo della domanda interna, cioè dei consumi, e dell'industria (+0,7% la produzione nel primo trimestre). Nonostante tutto questo, però, l'Italia ha fatto peggio di Eurolandia (+0,5%) e, soprattutto della Germania (+0,7%) che ha fatto meglio delle attese grazie a una ripartenza dei consumi interni trainata da politiche di minor contenimento dei salari.

Questo spiega perché la deflazione su base annua ad aprile a Berlino sia stata dello 0,1% e a Roma dello 0,5 per cento. In Italia una simile variazione negativa dei prezzi al consumo non si registrava da gennaio dell'anno scorso (-0,6%). Che cosa significa questo? In pratica, che i volumi delle vendite e dei fatturati crescono meno di quanto potrebbero fare perché i prezzi bassi applicati ai prodotti comprimono i margini. E, soprattutto, che i consumi crescono perché l'occupazione è lievemente aumentata non perché vi sia una maggiore capacità di spesa a livello individuale.

Magari non tocchiamo con mano la deflazione tutti i giorni perché i prezzi dei generi alimentari sono sostanzialmente invariati, ma ci sono due conseguenze che si possono osservare. La prima è che la deflazione ritarda gli investimenti in quanto le imprese tendono a non indebitarsi per qualcosa che si deprezza molto velocemente. La seconda è che meno investimenti significano meno crescita. Per realizzare gli obiettivi del Def (+1,2%) il Pil italiano dovrebbe crescere più dello 0,3% del trimestre passato.

Di questa possibilità Standard & Poor's dubita fortemente tanto da aver ridotto da +1,2 a +1,1% e da +1,4 a +1,3% le previsioni di crescita del nostro Paese rispettivamente per l'anno in corso e per il prossimo. Per fortuna non c'è stato nessun downgrade e quindi l'Italia ha conservato il suo livello investment anche se «le debolezze del Pil dell'Italia ne erodono la competitività e ne minano la sostenibilità della finanza pubblica». Ebbene sì, perché il Pil che cresce meno del previsto significa più debito/Pil. E più debito/Pil significa più correzione di bilancio, cioè più tasse che frenano la competitività delle aziende.

Il taglio delle stime è solo una conseguenza della decelerazione dell'economia italiana alla fine del 2015 e soprattutto delle prospettive poco incoraggianti di crescita globale nel resto dell'anno in corso. La fine del comunicato di S&P, però, è illuminante. «Senza una ripresa degli investimenti dubitiamo che la crescita possa accelerare», sostengono gli esperti dell'agenzia lodando il tentativo renziano di abbassare le tasse sul lavoro.

Non a caso i due temi affrontati rappresentano due obiettivi che Renzi e Padoan cercano vanamente di inseguire. Il problema è che tanto la deflazione quanto l'obbligo di consolidamento di bilancio imposto dall'Europa restringono pesantemente i margini di manovra. Un taglio della spesa pubblica fatto seriamente sarebbe d'aiuto ma produrrebbe, almeno inizialmente, recessione.

Questa si potrebbe combattere solo sostenendo gli investimenti, sia pubblici che privati. Tali spese, però, non sarebbero mai autorizzate da Bruxelles poiché sarebbero più alte dello 0,7% del Pil. Ecco perché Renzi e Padoan si trovano tra l'incudine e il martello.

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