Per chi non lo avesse ancora capito, in Italia stiamo combattendo una guerra contro un nemico insidioso e invisibile. Nei war plans del governo si prendono in considerazione simulazioni che immaginano 100mila contagi. Un'emergenza inedita, superiore a quelle del passato in cui il Paese ha affrontato terremoti, alluvioni, terrorismo e crisi finanziarie, perché dai contorni ignoti, dalle dimensioni globali e dalla durata impossibile da prevedere. In un simile scenario che contempla, nel tempo, un'emergenza sanitaria e una ancor più dura crisi economica, le risposte della politica sono pressoché di scuola, uguali a quelle utilizzate per altre emergenze: non c'è nulla di straordinario che corrisponda alla novità del pericolo che abbiamo di fronte. O meglio, ci sono delle misure che segnalano il momento drammatico, ma sono assunte più perché vengono considerate un obbligo dagli esperti, che non perché il governo intero abbia consapevolezza della situazione. Il teatrino di mercoledì pomeriggio, in cui per sei ore non si è capito se si sarebbe arrivati alla chiusura o meno delle scuole, con il ministro della Pubblica istruzione che frenava sulla base di una retorica del tutto inopportuna visto il momento («Non accetterò che i miei alunni rinuncino al sapere» è stato il suo argomento), lo dimostra: in Giappone il fermo delle strutture scolastiche è stato comunicato alle famiglie quattro giorni prima; da noi, invece, lo si è saputo solo 14 ore prima.
Si va avanti a tentoni nelle decisioni, mentre il mondo, per una sfortunata serie di errori nella comunicazione, ci considera alla stregua dei nuovi untori. E che qualcosa non funzioni, non giri, lo dimostra l'atteggiamento che serpeggia nei confronti del premier: la fiducia nei confronti di Giuseppe Conte è dettata solo dall'emergenza. Nei media e nella sua stessa maggioranza, infatti, non sono pochi quelli che ne segnalano i limiti. Si va avanti così solo perché negli schemi ordinari della politica, in una situazione di crisi non si può mettere in discussione né un premier, né un governo. E dato che il problema c'è, eccome, per parlare al Paese si richiede al capo dello Stato un ruolo di supplenza. Ma, appunto, si tratta di uno schema ordinario, che non tiene conto del fatto che questa emergenza è talmente straordinaria da somigliare ad una guerra. E in una guerra, se si vuole vincere, è necessario avere una fiducia cieca nella catena di comando. Lo sapevano bene gli inglesi che nel secondo conflitto mondiale, non esitarono a cambiare primo ministro mentre i nazisti assediavano Londra e a chiamare Winston Churcill al numero 10 di Downing Street sotto le bombe.
Ecco da noi per vincere questa guerra, ci vorrebbe un Churcill. Un Churchill calato nella situazione italiana, che abbia caratteristiche peculiari per riscuotere la fiducia dell'intero Paese: quindi, un personaggio politicamente neutro, con il requisito al giorno d'oggi raro - della competenza. Politicamente neutro perché dovrebbe raccogliere la fiducia incondizionata di un ampio schieramento politico: motivo per cui dovrebbe essere al di sopra delle parti, dovrebbe essere una figura imparziale per storia e per i ruoli ricoperti in passato; in sintesi, dovrebbe dare la garanzia che un domani non interferirà nelle elezioni candidandosi da solo, o contro una parte dei partiti che lo hanno appoggiato. L'esperienza Monti brucia ancora. Competente perché dovrebbe riscuotere non solo la fiducia del Paese, ma anche del consesso internazionale. Ed essere capace di trattare a Bruxelles e con i nostri partner europei alla pari. Inoltre dovrebbe avere i requisiti necessari per essere una garanzia verso i mercati, perché la crisi economica si preannuncia ben più problematica di quella sanitaria. Infine, dovrebbe avere la forza e l'autonomia di scegliersi una squadra di governo - politica o tecnica poco importa capace di vincere questa perfida guerra.
Di figure del genere, di potenziali Churchill, anche il nostro malandato Paese ne ha, a cominciare da quel Mario Draghi che promuovendo il quantitative easing, e infischiandone delle minacce tedesche, ha salvato il nostro Paese e la Ue nell'ultima crisi finanziaria. O personaggi di complemento come quel Guido Bertolaso, che ha rifondato la Protezione Civile, e poi ha avuto una lunga esperienza negli ospedali in Africa, quanto mai utile in questo momento. Le risorse, insomma, non mancano. Risorse che chiamate non potrebbero sottrarsi, perché un rifiuto di fronte ad un'emergenza del genere equivarrebbe ad una diserzione. L'unico problema è che ci sarebbe bisogno di una classe politica consapevole, responsabile e lungimirante che abbia il coraggio di metterle in campo. Una classe politica che si renda conto che di fronte ad una crisi così cruenta, cadenzata dai bollettini di guerra (quello di ieri parlava di 4mila malati, 197 morti insieme alla notizia che il virus è arrivato pure in Vaticano), c'è bisogno che tutti indossino i panni dei servitori dello Stato spogliandosi di quelli dei politicanti.
E il primo a dare l'esempio dovrebbe essere proprio Giuseppe Conte, colui che si definì «avvocato del Popolo», assecondando questo passaggio. Un po' come fece Neville Chamberlain con Winston Churchill. La Storia insegna che, nel rispetto di tutti, non esistono uomini per tutte le stagioni e neppure per tutte le emergenze.
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