Per parlare e scrivere di Alfredo Ambrosetti, nell'autobiografia che l'autore ha pubblicato in questi giorni con Egea, bisogna saper leggere con occhio storico anche tra le righe. «La mia storia» è tante cose. Per esempio una panoramica straordinaria sul meglio dell'imprenditoria italiana, vista dalla mente di chi ha contribuito a farne un'eccellenza nel mondo.
Ma è tale e tanta la modestia dell'autore, che si può osare e affermare che se c'è un dibattito, oggi, che ne supera ogni altro per importanza e attualità, ad averlo colto e diffuso per primo è stato lui, Alfredo Ambrosetti, il padre del «vincolo esterno». Proprio in queste ore il futuro del Paese e del governo sembra giocarsi su questo, su come coniugare crescita e minor disuguaglianza con il «vincolo esterno», cioè quel certo rapporto percentuale tra il deficit e il Pil. Un numeretto imposto dall'esterno, dall'Europa. E da questo tema ne discendono decine. Ne deriva addirittura nascita e crescita del sovranismo, che sta avendo proprio in Italia il suo laboratorio d'occidente. Il vincolo esterno e la sua portata sono stati scoperti da Ambrosetti in tempi non sospetti all'interno della sua creatura più nota: il Workshop o Forum Ambrosetti, di Villa d'Este, a settembre, a Cernobbio. Quel summit che vede riunirsi sul Lago di Como, per tre giorni, da 44 anni, manager, accademici e leader politici di tutto il mondo.
L'idea del Forum, racconta l'autore, è nata nel novembre del 1974 da un'intuizione avuta in una serata invernale, in treno, con Umberto Colombo: trattare insieme tre scenari fino a quel momento considerati a compartimenti stagni. Ovvero, quello economico, quello socio politico e quello tecnologico, affidando i primi due a Nino Andreatta e Francesco Alberoni, il terzo allo stesso Colombo. Nella prima pionieristica edizione, nel luglio 1975, si presentarono 14 partecipanti, ma per Ambrosetti valeva la pena di insistere allargando la platea a Premi Nobel come Franco Modigliani (a cui Ambrosetti telefona senza conoscerlo e dopo mezzora riesce a convincerlo) o a Romano Prodi. E successivamente ad àmbiti più caldi della società: dal segretario della Cgil Luciano Lama, all'ad della Fiat Cesare Romiti. Così, dagli anni Ottanta in poi, il Forum diventa un appuntamento fisso, sempre più seguito dalla stampa, curiosa di incontrare decine di personaggi di rilievo tutti insieme (Arafat come Shimon Peres erano ospiti fissi), in tre giorni di dibattiti e presentazioni. Che segnano ormai per tutti la ripresa dei lavori dopo la pausa estiva, fissandone addirittura l'agenda, sia politica, sia economica. Ed è in questo ambito che, in un modulo dove le due punte erano Gianni Agnelli e Mario Monti, negli anni Novanta il Forum colma un vuoto della politica e assume un compito pedagogico: convincere imprenditori e banchieri italiani, perlopiù riluttanti, che l'apertura del Paese verso l'Europa ed il Mondo è un'opportunità unica. La cultura del «vincolo esterno» nasce da lì, per poi crescere a dismisura con la crescita della Ue e la nascita dell'euro. Tanto che qualcuno definisce il Forum come «l'europeismo padre». Mentre qualcun altro, invece, ne coglie il limite di non essere riuscito a passare dalla pedagogia delle élite al consenso di fasce più ampie della società. Una distanza che, acuitasi nei momenti più neri della crisi di questo secondo decennio del nuovo secolo, ha infine trasformato il Forum nel «tempio simbolico dei poteri forti», come scrive nella prefazione al libro Ferruccio De Bortoli.
Ambrosetti, classe 1931, non rinuncia nel suo racconto allo stile di uomo mite, educato e in fin dei conti semplice come lo è sempre rimasta la vita che leggiamo nel libro, insieme alle foto con la moglie Lella, i figli Chiara e Antonio e i nipoti (oltre naturalmente a quelle con tutti potenti del mondo). Non ha mai smesso di vivere nella sua Varese e da quasi 70 anni è pendolare con Milano. Qui ha studiato Economia, alla Cattolica, laureandosi nel 1955, prima di specializzarsi, imparare l'inglese e fare piccole esperienze formative in almeno una dozzina di grandi multinazionali americane. Un percorso raro che lo porta, nel 1965, a 34 anni, a fondare lo Studio Ambrosetti, società di consulenza direzionale. Per l'Italia una novità. Per Ambrosetti la cifra della vita che si legge nel libro: quella di un innovatore.
Tra i suoi primi clienti tante aziende italiane che grazie alle sue idee, sull'organizzazione e la governance, hanno cambiato stazza, affrontato nuovi mercati, fatto un salto culturale. Molte di queste, da Barilla a Marzotto, per citarne due, non sono state altro che il laboratorio della «multinazionale tascabile» che si è poi affermato, nella media e grande impresa italiana, come il modello vincente in termini di produttività, margini e capacità di resistere agli choc.
Una storia unica quella di Ambrosetti, ma non per caso.
Lo si capisce dalle quattro righe del sottotitolo del libro: «Tanto studio, tanto lavoro, tante innovazioni, grandi soddisfazioni». Dove quello «studio» e quel «lavoro» indicano la strada. Che tanti oggi vorrebbero accorciare. O minimizzare. Ma che invece resta l'unica.
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