Alla fine ha vinto il fossile, la vecchia quercia rinsecchita, ma rinverdita e potata per piacere alla gente che piace. Poco importa che in Austria al politico «verde» Alexander Van der Bellen non creda probabilmente nessuno. La sua funzione era quella di far da «diga» e c'è riuscito. Nel suo nome hanno votato e vinto tutti gli elettori ancora convinti, come insegnano Bruxelles e i media fedeli al dogma europeista, che sulla scena esistano i presentabili e gli impresentabili, i buoni e i cattivi, i sinceri democratici e gli xenofobi malvagi, pericolosi per il progresso e la democrazia. Cosi questo 72enne professore di economia - venuto al mondo un anno prima di quella «Groß Koalition» tra social democratici e democristiani al potere dal 1945 - diventa l'ultimo caposaldo del sistema. E, come il sistema che rappresenta, incarna tutto quel di cui l'«altra» metà del paese farebbe volentieri a meno. Una metà saldamente ancorata alle montagne e alle campagne, vera essenza della nazione austriaca, ma che nulla può contro un «sistema» trincerato in quella Vienna - caposaldo delle «elite» politiche, finanziarie e mediatiche - da dove arriva il 70 per cento dei voti confluiti su Van der Bellen al ballottaggi. Discendente d'una famiglia di nobili russi sfuggiti alle persecuzioni di Stalin questo professore d'economia sembra, nonostante gli jodler e le icone simil tradizionaliste con cui condisce gli spot televisivi, la versione crucca del nostrano Mario Monti. Al pari del nostro ex premier tutto loden ed Europa anche il professore di Innsbruk sfoggia un eloquio lumacoso ed impacciato che lo rende incapace di qualsiasi sintonia con la gente comune. Una gente comune che - come ogni buon aristocratico convertito alla «gauche caviar» - disprezza amabilmente, ma a cui si compiace di rivendere l'immagine contraddittoria di ex-nobile pronto a battersi nel nome dell'ecosostenibilità e della difesa del pianeta terra. Salvo poi ammorbare chi lo circonda con il fumo delle sue sigarette e sfrecciare al volante di automobili di grossa cilindrata. Ma le contraddizioni del neo presidente - tanto politicamente corretto quanto radical chic - non s'esauriscono qui. Van Der Belen è - per sua stessa ammissione - un ex massone che negli anni 70, agli esordi di una brillante carriera universitaria, non si fece problemi ad indossare il grembiulino per farsi spazio a colpi di squadra e compasso negli affollati ambienti accademici di Innsbruk. Di certo quel suo passato non lo qualifica come il medico più adatto a curare la crisi d'identità di un'Austria tradizionalmente cattolica e contadina. Una nazione dove un ceto medio dal tenore di vita largamente compromesso guarda con aperta ostilità alle politiche dell'Europa. Un'Europa accusata sul piano sociale di favorire la penetrazione d'un immigrazione islamista e su quello economico d'appoggiare gli interessi delle «elite» finanziarie ed industriali affossando contadini ed operai, artigiani e piccoli commercianti. E così la scontata e saccente retorica con cui Van der Bellen sfrutta la propria storia familiare nel tentativo di difendere profughi e fallimentari politiche d'accoglienza lo trasforma nel bersaglio di tutte le ironie e di tutta la diffidenza dell'«altra» Austria. L'Austria che non alloggia nei quartieri eleganti della capitale, ma nelle periferie e nei piccoli centri di campagna invasi dai rifugiati.
L'Austria che guarda al neo presidente come la nuova «quinta colonna» del nemico, il complice che lavora dal di dentro per snaturare l'Austria, cancellare la sua identità e trasformarla in una nazione meticcia prona all'ideologia laicista.
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