Sono le 19 di giovedì sera e passeggiando sotto la pioggia a piazza Montecitorio, Paolo Savona, ministro dell'Economia «ombra» del governo gialloverde, racconta la partita a poker che sta giocando con il governatore della Bce, Mario Draghi. Eh sì, perché a ben guardare, in questo scontro sulla manovra si ritrovano molte delle regole del tavolo verde: bluff, rilanci e il coraggio di andare a guardare, sperando (perché stiamo davvero all'azzardo) che l'avversario non abbia quattro assi. Qualche minuto prima, nell'aula della Camera, il Professore aveva ammaliato grillini e leghisti con una lezione d'economia: per spiegare le cifre del Def e i provvedimenti aveva usato tutti gli artifizi possibili, tentando in un'impresa impossibile come la quadratura del cerchio. Ma sul pericolo più insidioso, lo spread e i mercati, era partito da un assunto che non c'è. O meglio c'era, ma è in via di estinzione: si tratta di quel quantitative easing, lo strumento con cui la Bce è intervenuta in questi anni per acquistare titoli di Stato in difficoltà e proteggere i paesi dell'Unione dalle ondate speculative. Un vero e proprio scudo. Solo che dal primo ottobre la possibilità di intervento della Banca centrale europea si è ridotta a 15 miliardi (un'inezia) e dal primo gennaio questo strumento non ci sarà più. Certo ci sarebbe anche l'Omt (Outright Monetary Transactions), ma è un intervento condizionato e il Paese che lo chiede si porta in casa la Troika.
Per cui l'Italia ora è quasi senza rete e presto lo sarà del tutto. Tutta l'impostazione di Savona - l'azzardo - è che alla fine la Bce quello scudo dovrà darlo per forza. «Io non ho attaccato Draghi perché non era il caso spiega il ministro sotto quella fastidiosa pioggerellina , ma l'elemento fondamentale è che ci sia uno scudo permanente che metta un paese al sicuro dalla speculazione. Uno strumento che non deve essere discrezionale, cioè che interviene perché lo decide qualcuno, ma deve entrare in funzione automaticamente, secondo uno schema normativo. E, detto in un orecchio, penso che Draghi ci stia già pensando. Altrimenti non si capirebbe perché lo spread al mattino va su e la sera torna giù. E, comunque, senza uno strumento del genere non salta l'Italia, salta l'Europa». Insomma, la logica Di Savona è lucida, lineare, solo che si basa tutta su una scommessa: quello «scudo» anche se ora non c'è, presto ci sarà, ne vale della salute non solo del nostro Paese ma dell'intero sistema. Una convinzione, o meglio una speranza, che ricorda, si fa per dire, quella dei banchieri americani alla vigilia della grande crisi del 2008: «too big to fail», troppo grandi per fallire. Tradotta pensando all'oggi: nessuno si può permettere il default italiano. Solo che per ora la politica, il bluff, l'azzardo a seconda delle opinioni di ciascuno - del governo gialloverde, non ha mosso granché a Francoforte e, comunque, non certo nella direzione dei desiderata di Savona. «La piena adesione al patto di stabilità e crescita è tornato a ripetere ancora ieri Mario Draghi è fondamentale per avere bilanci sani». E il Fondo Monetario Internazionale («manovra va in direzione opposta ai nostri suggerimenti») e Juncker («l'Italia non mantiene la parola data») hanno rincarato la dose quotidiana. «A Savona voglio bene ma nei suoi ragionamenti c'è una vena di pazzia osserva Renato Brunetta in un'esclamazione che mette insieme perplessità, simpatia e stima - : l'Italia ora è senza cintura di sicurezza. E la differenza con il 2011 è enorme. Allora c'era una crisi globale, il rischio del contagio dopo la Grecia. Ora è come se il governo italiano avesse indossato una cintura esplosiva da kamikaze dentro una casamatta di cemento, e minacci gli altri gridando: O mi date quello che voglio, o mi faccio scoppiare e voi mi venite dietro. Ma quelli se ne fregano, perché questa volta non ci sarebbe nessun contagio».
Appunto, il rischio è che la Ue vada a vedere il bluff e che il governo gialloverde si ritrovi senza neppure una coppia in mano. Una sensazione che serpeggia in una maggioranza che comincia ad essere ossessionata dallo spread e dalle borse. Tant'è che gli applausi dell'altro ieri a Savona, al dott. Stranamore del governo gialloverde, avevano un non so che di liberatorio: nella confusione generale grillini e leghisti avevano bisogno di un Profeta in cui credere, in cui riporre più fiducia che non nei tanti tecnici, sbiaditi e sbandati, che popolano i ministeri nell'epoca del «cambiamento», i vari Conte, Tria e succedanei vari. E il Profeta è un ruolo che a Savona calza a pennello. Nel giro di pochi mesi, ha messo nell'angolo Tria e si è conquistato la fiducia incondizionata dei due dioscuri, Salvini e Di Maio. Era inevitabile: il fascino dell'accademico di lungo corso è l'unico che può dare forma e spirito ai grugniti che provengono da quel mondo. È lui la vera anima del governo. Lo stesso Silvio Berlusconi, quando ha mosso a Salvini qualche critica e riserva sulla manovra, si è dovuto sorbire dalla bocca del vicepremier leghista una lezione su Roosvelt e il New Deal che aveva la firma di Savona: «Tu gli parli di spread ha riferito sconsolato il Cav e Matteo ti tira fuori Franklin Delano». Lo stesso «excursus» storico che giovedì il Professore ha propinato all'aula di Montecitorio, ammaliando i banchi gialloverdi un po' come il pifferaio magico.
Solo che non tutti sono pronti a seguirlo. I più pragmatici tra i leghisti, come Giorgetti, e i grillini, tipo Buffagni, che sentono l'umore nero dei risparmiatori del Nord, cominciano ad avere qualche timore. E poi ci sono quelli preoccupati che gli obiettivi strabilianti del reddito di cittadinanza e della flat tax, si trasformino in incubi per i tagli che bisognerà apportare ai bilanci di ministeri come la Difesa. «Con l'aria che tira si è sfogato il sottosegretario leghista, Volpi, con il deputato di Forza Italia, Roberto Cassinelli rischiamo di creare problemi letali all'Ansaldo e arrecare danni alla Fincantieri. Cerchiamo di resistere. Ma sono solo».
Già la maggioranza è rapita dal flauto del Pifferaio, dai suoi sogni di gloria e di rivincita verso l'Europa. In primis Salvini.
«Giorgetti mi dicono che sia in difficoltà» racconta l'ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, che parla con tutti, «Toti, Maroni e Zaia mi raccontano che Salvini sia stato preso dall'hybris, da quella tracotanza di chi ha voglia di sfidare tutti, pure gli Dei. Lo stesso demone che si impossessò di Renzi quando era a Palazzo Chigi».
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