Dai e dai, un tentennamento dopo l'altro in un moto circolare che riporta sempre alla casella di partenza, e dai mercati è arrivata ieri la prima scossa di avvertimento. Costata a Piazza Affari un ribasso netto dell'1,64%, dopo un tuffo a -2,4% durante gli scambi, e ai titoli bancari una seduta di passione (-2%) causata anche dalla risalita dello spread tra i nostri Btp e il Bund tedesco dai 126 punti della vigilia a quota 131. Sono cifre che sembrano indicare un cambio di umore da parte degli investitori nei confronti dell'Italia, una sterzata netta dopo la paziente attesa, iniziata il giorno dopo il voto, legata alla nomina di un governo, per lo meno di tipo istituzionale. Con gli aut-aut incrociati di Lega e Movimento 5 Stelle, con il profilarsi di elezioni anticipate dall'incerta tempistica e dall'esito ancor più imperscrutabile, il credito pare esaurito e riaffiorano antiche preoccupazioni: quelle che rimandano allo stato assai precario delle finanze pubbliche tricolori (almeno sul lato del debito), al rispetto degli impegni presi in sede europea e alla prosecuzione delle riforme strutturali. La continuità, per chi fa affari, è essenziale: dà sicurezza ed è l'esatto contrario dell'incertezza.
Epperò, se è sbagliato sottovalutare quanto accaduto ieri, altrettanto è sopravvalutarlo. Solo un paio di giorni fa, l'indice Ftse-Mib aveva chiuso ai massimi da 10 anni, mentre la perdita di ieri ha scalfito appena i guadagni - superiori al 10% - accumulati dal 5 marzo, il giorno dopo l'appuntamento con le urne. Insomma: qualche presa di profitto, non particolarmente indotta dalla mancanza di un governo, andava anche messa in conto. E in ogni caso, il tesoretto rimasto è non solo cospicuo, ma anche il più robusto se confrontato con l'andamento di tutte le altre Borse. Piazza Affari, come si dice in gergo, ha quindi sovraperformato infischiandosene dello stallo politico, del minuetto estenuante tra i partiti e perfino dei ripetuti allarmi lanciati dal Fondo monetario internazionale e dall'Ocse sulla sostenibilità del nostro sistema pensionistico e sulla necessità di fare una patrimoniale per rimettere un po' in bolla i conti.
Questo girare lo sguardo altrove può essere spiegato in parecchi modi. Ne citiamo due. Il primo è correlato alla scommessa che un governo, prima o poi, sarebbe stato partorito. È un po' quanto accaduto in Germania. Dove, a dispetto dell'indole calvinista dei tedeschi, ci sono voluti sei mesi e un referendum consultivo prima di arrivare alla formazione di un esecutivo di coalizione. L'altro è più riconducibile al fatto che, seppur a scartamento ridotto, l'Italia continua a beneficiare della rete di protezione garantita dalla Bce attraverso il piano di acquisto titoli. È lo scudo che ha messo la museruola allo spread negli ultimi anni e impedito il riaccendersi delle tensioni sui mercati. Con il rallentamento del ciclo economico, non solo in Italia ma in gran parte dell'eurozona, l'istituto guidato da Mario Draghi si è inoltre fatto molto prudente. Al punto che la rottamazione delle misure di stimolo, prevista per il prossimo settembre, potrebbe non essere più così certa. A fronte di un ulteriore deterioramento della congiuntura, il quantitative easing potrebbe non solo essere prorogato, ma perfino irrobustito.
I prossimi mesi, d'altra parte, potrebbero essere resi complicati soprattutto a livello internazionale dalla partita che si gioca sui dazi tra Usa, Cina ed Unione europea e dall'aggiustamento dei tassi d'interesse statunitensi.
La volontà espressa dalla Federal Reserve di incasellare entro la fine dell'anno almeno altre due strette sta rafforzando il dollaro e mettendo alle corde le monete di alcuni Paesi emergenti, a cominciare dal peso argentino.Pessimi segnali. E tutti buoni motivi per non continuare a guardare solo il nostro piccolo ombelico italiano.
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