Caos legge elettorale: rinvio senza accordi. La minaccia del decreto

Pd, Fi e centristi chiedono 7 giorni di tempo. Il governo potrebbe intervenire in caso di stallo

Caos legge elettorale: rinvio senza accordi. La minaccia del decreto

Parola d'ordine: rinvio. Sulla legge elettorale, al di là delle chiacchiere, è tutto fermo, tanto che - dopo l'ennesimo rinvio di una settimana deciso ieri in commissione su richiesta di Pd e Forzza Italia - si riaffaccia l'ipotesi di intervenire per decreto se il Parlamento non si muoverà per tempo.

Il leader del Pd vuole essere nel pieno delle sue funzioni prima di dare il via alle danze sulla legge elettorale, dalla Convenzione che domenica lo incoronerà ufficialmente. E vuole evitare le trappole parlamentari: le commissioni che se ne occuperanno, alla Camera e al Senato, sono presiedute - è la preoccupazione Pd - da proporzionalisti convinti, che potrebbero fare sponda con chi vuole abbassare le soglie di sbarramento (quella del Senato è all'8%) e spostare il premio alla coalizione. Quindi i renziani dicono di voler avere un accordo definito prima di iniziare a giocare sul serio, per evitare trappole.

Così, dal Pd partono proposte diverse, per allettare ora Forza Italia e ora i Cinque Stelle. I colonnelli renziani sono al lavoro, tra abboccamenti e pour parler con le altre forze politiche, ma tutto resta per ora dietro le quinte. C'è il sistema tedesco, rispolverato negli ultimi giorni, che prevede il 50% di collegi uninominali e il 50% di proporzionale con listini bloccati, ed uno sbarramento unico al 5% che ucciderebbe in culla non solo i bersanian-dalemiani di Mdp ma anche i centristi di Angelino Alfano. E che ha subito ottenuto apprezzamenti in casa berlusconiana, ma viene visto male dai grillini. Però c'è anche l'ipotesi di estensione dell'Italicum, con le correzioni della Consulta, che invece piace ai Cinque Stelle. I quali ufficialmente chiedono l'abolizione dei capilista bloccati, con il Pd che fa finta di essere disponibile a toglierli ben sapendo che nessun partito (neppure quello di Beppe Grillo) vuole fare a meno della garanzia di eleggere i propri candidati. Spunta anche la proposta del renziano Fragomeli, che prevede un doppio turno con premio a chi arriva al 37%.

Una girandole di proposte che, alla fine, sa molto di melina. Perché, come confida lo stesso Renzi alla sua ristretta cerchia, la conclusione più probabile è che «sulla legge elettorale non si riesca a combinare nulla». Neppure quel decreto con correzioni minime ipotizzato anche da alcuni big Pd come ultima ratio, rilanciato ieri da Salvini e subito denunciato come «colpo di Stato» dai Cinque Stelle. Troppi gli interessi diversi in gioco, troppi i rischi di agguato in Parlamento, tanto più che alla Camera il regolamento prevede la possibilità di voto segreto. Nel Pd si dicono convinti che «o c'è un accordo blindato tra i tre maggiori partiti, o ci si infila in un pantano senza fine». Ma l'accordo a tre (Pd, Fi e M5s) è un po' come la quadratura del cerchio, vista la divergenza di interessi.

Ecco dunque che, dopo aver fatto mostra di trattare con tutti, Renzi si prepara ad esibire i rifiuti ricevuti per tirare una conclusione col presidente Mattarella: il Parlamento non riesce a cavare un ragno dal buco, quindi si vada a votare con le regole che ci sono. Resta da capire se il leader Pd si sia convinto ad attendere la primavera 2018 o se voglia ancora tentare la forzatura ad ottobre, approfittando dell'ondata elettorale franco-tedesca.

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