L'ultimo scafista l'hanno ammanettato ieri i poliziotti di Messina. Si chiama, Tubo Momou, senegalese di 23 anni e minacciava i 578 migranti che dalla Libia ha traghettato verso l'Italia, di non dire nulla una volta sbarcati. Dal primo gennaio dello scorso anno sono stati arrestati 745 delinquenti coinvolti nell'immigrazione clandestina, in gran parte moderni Caronte. Secondo il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, dal primo maggio 2013 al 20 aprile scorso «sono 1.000 gli scafisti/schiavisti arrestati in Italia». Per tutti i reati relativi all'immigrazione clandestina risultano 1.142, i detenuti nel nostro paese fino ad oggi. Solo il 35%, però, ovvero 399 delinquenti, scontano una condanna definitiva. Secondo i dati forniti a il Giornale dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria gli stranieri sono il 91%. I libici dietro le sbarre risultano appena 66, lo 0,39%. I boss del traffico di uomini, che si annidano dall'altra sponda del Mediterraneo (dalla Libia partono il 95% dei barconi) preferiscono arruolare scafisti stranieri pagandoli fino a 5mila dollari per traghettare la merce umana verso l'Italia.
Non a caso la prima nazionalità degli arrestati dal gennaio dello scorso anno è quella egiziana con 246 delinquenti finiti in manette. Molti sono pescatori e altri scafisti per caso, come gli africani della Guinea, Senegal, Siria, Senegal, Mali. Nell'ultimo anno e mezzo solo 6 libici sono finiti in manette. A consegnare i Caronte alla polizia ci pensa anche la Marina militare. Durante la missione Mare nostrum , durata un anno, ne hanno individuati 366. Martedì, il ministro della Difesa Roberta Pinotti, ad un'audizione in Senato ha dichiarato che nel corso della nuova «operazione Mare sicuro sono stati fermati oltre 100 scafisti ed il 14 aprile sequestrata una nave madre», che serve a smistare i migranti. Nel rapporto Greta , un gruppo di esperti del Consiglio d'Europa, pubblicato lo scorso settembre, l'Italia è stata bacchettata chiedendo più «sforzi per garantire che i reati in materia di traffico di esseri umani, per tutti i tipi di sfruttamento, siano attivamente indagati e perseguiti prontamente ed efficacemente portando a sanzioni proporzionate e dissuasive». Fino a qualche anno fa il fronte giudiziario era un disastro. Nel 2010 le condanne per traffico di esseri umani sono state solo 14 e 9 nel 2011, quando è scoppiata la primavera araba con relativa ondata di sbarchi. In marzo, Giorgio Innocenzi, segretario generale della Confederazione sindacale autonoma di polizia, aveva lanciato l'allarme sulle troppo scarcerazioni in attesa di giudizio o sui casi di scafisti che «avvezzi al nostro sistema giudiziario, confutano il reato che nasce spesso da dichiarazioni fatte a caldo da alcuni migranti, che si fatica a suffragare con i fatti». I testimoni talvolta non si presentano in tribunale per paura di ritorsioni o perché hanno raggiunto un altro Paese. Un tunisino accusato di aver traghettato un migliaio di profughi nel luglio 2014, lo scorso febbraio è stato condannato a due anni, scarcerato ed espulso. Altra musica per Elmi Mouhamud Muhidin, rinchiuso nel carcere di Trapani con una condanna a 30 anni per la morte in mare di 366 migranti nel 2013. Haj Hammouda Radouan e Hamid Bouchab sono stati condannati a Catania rispettivamente all'ergastolo e a 10 anni per il naufragio del 12 maggio 2014 con 200 vittime. Non mancano una dozzina di baby scafisti, fra i 13 e 15 anni, nel carcere minorile di Catania. I ragazzini venivano ingaggiati in Egitto promettendo 500 o 1.000 dollari, metà in contante ed il resto all'arrivo con pagamento via money transfer .
Pochi i veri trafficanti finiti in carcere in Italia. In aprile è stato arrestato in Sicilia l'eritreo Asghedom Ghermay, che faceva da terminale per una delle più grosse reti annidate in Libia.
Il suo compito era far proseguire, a pagamento, i migranti sbarcati sull'isola verso altre città italiane o paesi europei. Lo poteva fare perché l'Italia gli aveva concesso lo status di rifugiato, dopo il suo arrivo su un barcone a Lampedusa ed il permesso di soggiorno fino al 2019.
di Fausto Biloslavo
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