Cdp-Tim, applaudono tutti tranne la lobby finanziaria Pd

Ok di M5s, FI, Lega e Calenda all'investimento di Stato. Ma la fuga di notizie fa perdere 100 milioni e mette tutto a rischio

Cdp-Tim, applaudono tutti tranne la lobby finanziaria Pd

La scalatina dello Stato al 5% del capitale di Telecom, che avverrà con i risparmi dei correntisti postali tramite la Cassa Depositi e Prestiti, potrebbe costare un centinaio di milioni in più del previsto. Tutta colpa della fuga di notizie che ha bruciato l'operazione con quasi 48 ore di anticipo. Due giorni di mercato aperto che hanno fatto salire la capitalizzazione dei titoli ordinari Telecom di quasi due miliardi: tra giovedì e venerdì il titolo è balzato del 13% in Borsa. E questo perché i consiglieri di Cdp hanno letto dell'operazione 5% sulla prima pagina di 4 quotidiani nazionali, prima ancora di essere convocati per il cda che doveva deliberare. Da quel momento i titoli hanno cominciato a schizzare, rendendo l'acquisto del 5% più caro di circa 100 milioni in soli due giorni.

Come è potuto accadere? È solo un caso che poco prima del cda di Cdp si siano dimessi tre consiglieri? Ci troviamo di fronte a un aggiotaggio di Stato? O a qualcuno che ha interesse a bruciare l'operazione? Le domande sono importanti perché l'ingresso di Cassa in Telecom - che pure rappresenta un'iniziativa clamorosa di investimento pubblico in una società privatizzata e di schieramento contro i soci francesi di Vivendi - ha raccolto uno straordinario consenso politico: è stata decisa dal governo dimissionario; ha raccolto il via libera di chi ha vinto le elezioni (Giancarlo Giorgetti, capogruppo della Lega alla Camera, ha ieri parlato di «finalità giusta, condivisa in termini politici», mentre uno dei leader del M5s, Roberta Lombardi, in un tweet di ieri ha scritto «Cdp nel capitale #TIM a difesa della rete, un asset strategico per il Paese»); e di sicuro è gradita a Silvio Berlusconi, il cui gruppo Mediaset è in battaglia contro Vivendi da quasi due anni. Chi poteva avere interesse a rendere la cosa difficile se non impossibile?

Esclusa, per buon senso, la sciagurata fuga di notizie da parte di qualcuno in cerca di accreditamento personale, sono due le ipotesi raccolte dal Giornale. Una politica, l'altra finanziaria. La prima è un disturbo bello e buono, nei giorni delle consultazioni al Quirinale, al clima idilliaco nato intorno all'operazione Cdp, condiviso tra Pd di Calenda-Gentiloni, Lega, FI e M5s.

La seconda porta alla pista francese, cioè a quegli interessi transalpini nel nostro Paese cresciuti a dismisura con i governi dell'ultima legislatura. Dal peso in Mediobanca, Telecom, Mediaset; a quello dei manager arrivati a guidare Generali e Unicredit: tale spiegamento di forze ha senz'altro una sua quinta colonna romana. Mentre il governo uscente ha rapporti aperti con l'Eliseo su molti dossier (si pensi a Fincantieri), non solo finanziari. In questa chiave un pezzo dell'esecutivo Gentiloni potrebbe essersi mosso per frenare la mossa di Cdp, ostile a Vivendi e al suo patron Vincent Bolloré, primo socio privato di Mediobanca. Entrambe le ipotesi possono portare dalla stessa parte, e cioé il Pd renziano, che ha avuto il pallino in mano su tutto fino a poche settimane fa e ora è fuori dai giochi. Mancano però pistole fumanti.

Si sa solo che la decisione di schierare Cdp è stata presa, mercoledì scorso, in una riunione ristretta a cui hanno partecipato Gentiloni e i ministri Calenda (Sviluppo) e Padoan (Tesoro, azionista con l'83% di Cdp). E che quest'ultimo fosse l'unico a non essere d'accordo.

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