Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, dice: sul lavoro serve una rivoluzione. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dall'America, più o meno alla stessa ora, ha detto: sul lavoro serve una rivoluzione. Poco prima, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, aveva detto, rivolto all'Italia: se non fate una rivoluzione subito siete morti. Il capo dell'opposizione, Silvio Berlusconi, da vent'anni dice che bisogna rivoluzionare il mondo del lavoro. Davanti a tanta, rara e prestigiosa unanimità di pensiero e intento viene spontanea una domanda un po' banale: ma se sono tutti d'accordo, per quale diavolo di motivo non fanno questa benedetta rivoluzione?
Una risposta intelligente non c'è. Quella stupida purtroppo è quella vera. Si rischia di non farla perché non lo vogliono una minoranza del Pd (democraticamente sconfitta alle primarie), la signora Camusso (capo di un sindacato fatto più da pensionati che da lavoratori), Nichi Vendola (che non ha mai lavorato un'ora in vita sua e che ormai rappresenta solo se stesso) e tale Gotor, uno storico famoso più che per i suoi scritti per aver guidato la disastrosa campagna elettorale di Bersani (probabilmente quel: «Smacchieremo il giaguaro» è farina del suo sacco, così come l'ideona di fare un governo con Grillo).
In queste ore questa compagnia di giro di perdenti sta tramando e complottando per impedire al capo dello Stato, al premier, al presidente della Bce e al capo dell'opposizione di varare la salvifica «rivoluzione» del lavoro. E uno dice: ma figurati se ce la fanno. Occhio, siamo in un Paese dove un gruppo di musicanti di seconda fila, mediocri, invidiosi e frustrati, è riuscito a far dimettere dall'Opera di Roma Riccardo Muti, un genio che il mondo ci invidia. E probabilmente - anche se non lo ammettono pubblicamente - far dimettere il direttore d'orchestra del governo è proprio l'obiettivo che si sono dati i musicanti del Pd ormai confinati in seconda fila. Pura vendetta.
Vogliono solo tornare alla vecchia musica loro cara, al suono della quale l'Italia, come accadde sul Titanic, stava andando e ancora andrebbe diritta a schiantarsi contro l'iceberg del tracollo. Cambiare spartito per Renzi, se necessario con l'aiuto di Berlusconi, non è più una scelta. È una necessità improrogabile.
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