«È dura, ma li piegheremo». Il carrista alza il pugno e sibila tra i denti quelle cinque parole. Poi si fa largo tra il crocchio di curiosi e riguadagna la torretta del suo blindato incolonnato, assieme a decine di camion e carri, nel parcheggio di questo autogrill. Siamo ad Armjansk, ultima città della Crimea a un chilometro dal confine ucraino. Da venti giorni questo autogrill è il primo e ultimo punto di ristoro per le truppe che vanno o tornano dalla guerra. E qui si danno appuntamento anche i «crimeiani» ansiosi di strappare ai militari qualche rivelazione sulle battaglie. I volti tesi dei militari intenti a sbranare qualche panino dopo giorni di razioni da campo non sembrano pienamente in linea con le certezze del ministero della Difesa russo che da ieri rivendica «il pieno controllo dell'intero territorio della regione di Kherson».
Kherson, 130 chilometri a Nord Ovest del confine, è in mani russe dal 3 marzo quando il sindaco Igor Kolykhaiev confermò la resa mentre i comandanti russi decretavano l'amministrazione militare. Ma tra il conquistare e il controllare una città e una regione c'è una certa differenza. Dipinta nei volti e nelle espressioni di questi militari. Una differenza che diventa cruda realtà quotidiana nelle strade di Kherson e in quelle di Melitopol, 212 chilometri più a Est. In entrambe le città, occupate da settimane, continuano le dimostrazioni di cittadini pronti a sventolare le bandiere ucraine al passaggio delle colonne russe e a urlare «Non ci arrendiamo». Questo non basta a smentire l'evidente vittoria russa. Sia sulla direttrice di Kherson, sia su quella di Melitopol le truppe ucraine sono state spazzate via subendo centinaia di perdite. Ma stando a quanto si sussurra su questo confine dall'altra parte continua a mancare un pieno e rassicurante controllo del territorio. Qui e là i focolai di resistenza si fanno sentire e le colonne russe devono continuare a guardarsi le spalle.
Per non parlare della necessità di contenere dimostrazioni e proteste. A Kherson e Melitopol il compito è affidato ai gendarmi di Rosvguardia, la guardia nazionale addestrata a mantenere l'ordine nelle zone sotto controllo militare. Anche per questo le manifestazioni di protesta non sono degenerate in scontri e si sono risolte con qualche raffica di kalashnikov sparata in aria. Ma la situazione resta estremamente tesa e rischia di degenerare da un momento all'altro. La precaria situazione è la diretta conseguenza della superficialità con cui è stata preparata l'operazione militare. Un'operazione che, a differenza di quella messa a segno qui in Crimea otto anni fa, non è stata preceduta dalla creazione di un sottobosco di politici e collaboratori locali pronti ad assumere il controllo di città e territori per conto di Mosca. Così il sindaco di Kherson Igor Kolykhaiev continua, in assenza di qualcuno pronto a sostituirlo, a governare il municipio e a far sventolare la bandiera ucraina con il consenso «obtorto collo» dei comandanti russi.
Ma le voci di un progetto russo per la trasformazione di Kherson in un'auto-dichiarata repubblica indipendente simile a quelle di Lugansk e Donetsk, dopo uno sbrigativo processo elettorale e referendario, non sembra la soluzione migliore. Anche perché sia a Lugansk, sia a Donetsk si continua a combattere. Il precario controllo dei territori conquistati nelle prime settimane finisce però con il rallentare tutta l'offensiva fronte Sud Orientale. Un'offensiva che, nei piani di Mosca, deve allungarsi fino al porto di Odessa per congiungersi a Est con quella che scendendo dall'asse Nord di Kharkiv punta al centro industriale di Dniepro.
In mezzo, e a Est del fiume Dniepr, c'è tutta quell'Ucraina «utile» dove due centrali nucleari (Zaporizhzhia e Yuzhnoukrainsk) e i porti sul Mar Nero garantiscono energia e sbocchi commerciali ad acciaierie, comparti metallurgici e fabbriche di armamenti raccolti fra Mariupol e Kharkiv. Un'Ucraina indispensabile alla potenza russa, ma assai lenta da conquistare. E ancor più difficile da addomesticare.
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