Roma La Consulta ha dato un duro colpo all'austerity. La sentenza 247, pubblicata alla fine di novembre, ribalta l'impianto legislativo, introdotto dal governo Monti e solo parzialmente modificato dall'esecutivo Renzi, secondo cui gli avanzi di amministrazione e i contestuali contributi al Fondo pluriennale vincolato siano indisponibili, cioè non utilizzabili dagli enti locali. Nonostante la sentenza ritenga infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Veneto, essa stabilisce che «l'avanzo di amministrazione non può essere oggetto di prelievo forzoso» e che «una volta accertato nelle forme di legge, è nella disponibilità dell'ente».
Se preso alla lettera, il responso della Corte Costituzionale (che ha validità solo nei confronti dei ricorrenti) di fatto potrebbe «liberare» ogni anno almeno una decina di miliardi che lo Stato trattiene proprio allo scopo di contenere il deficit e, in pratica, imbellettare i conti da presentare a Bruxelles. Ovviamente anche i giudici costituzionali si sono espressi con prudenza perché la norma discende direttamente dall'articolo 81 della Costituzione (modificato con la legge 243 del 2012) che introduce nella carta fondamentale il principio del pareggio di bilancio, ma nel motivare il proprio «no» hanno aperto una porta alla revisione della legge. Lo Stato, si legge nella sentenza, può procedere a «una determinazione unilaterale, comunque provvisoria, di tale contribuzione solo quando la tempistica della manovra di finanza pubblica non consenta un previo contraddittorio e una piena concertazione con le autonomie». Insomma, oggi come oggi, il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan ha la facoltà di prevedere circa 5 miliardi di risparmi da Comuni, Province e Regioni, ma dovrebbe successivamente concordare con loro i contributi.
Anche perché è la stessa Consulta a evidenziare due questioni fondamentali. In primo luogo, il Parlamento abbia approvato nel 2013 la legge per accelerare i pagamenti della pa (con 64 miliardi ancora inevasi al 31 dicembre 2016) in modo da evitare la procedura d'infrazione della Commissione Ue. Il tentativo è fallito visto che l'Italia è stata deferita alla Corte Ue, ma è chiaro che ciò implichi necessariamente la possibilità di usare il Fondo pluriennale vincolato per onorare le obbligazioni. Da questo deriva che l'ente locale nelle sue varie articolazioni è tenuto a presentare bilanci ben articolati che non prevedano disavanzi, ma ciò non implica che Comuni, Province e Regioni non possano programmare investimenti e soprattutto pagarne le spese.
Non è un caso, ad esempio, che una serie di emendamenti alla manovra 2018 approvati al Senato abbiano da un lato attenuato la contribuzione degli enti locali al Fondo e, dall'altro lato, consentito di programmare investimenti per la messa in sicurezza del territorio in seguito a calamità naturali. Si tratta di micromisure ma che, anche per motivi puramente elettorali, invertono la tendenza interpretativa.
Il prossimo Parlamento ha dinanzi a sé due strade possibili da intraprendere: modificare la legge ordinaria per dare
un po' più di mano libera alle autonomie impostando la spending review su altre basi. Oppure avviare la revisione costituzionale. Stare nel guado potrebbe costare carissimo in termini di sostenibilità dei conti pubblici.
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