Anche stavolta Donald Trump ha saputo dire «no». L'aveva già fatto a fine febbraio quando aveva abbandonato il summit di Hanoi con il dittatore nord coreano Kim Jong-un. Stavolta ha cancellato l'incontro, fin qui segreto, di Camp David in cui avrebbe dovuto concordare con una delegazione talebana e il presidente del governo di Kabul Ashraf Ghani il ritiro dall'Afghanistan. Stavolta tirarsi indietro era più difficile. L'addio alla guerra più lunga degli Stati Uniti era stato promesso agli elettori durante la campagna del 2016 e rappresentava uno degli impegni rispettati da mettere sul tavolo in vista della corsa alla rielezione del 2020. Volendoci arrivare a tutti i costi Trump rischiava però l'accusa di aver tradito non solo il governo afghano, ma anche la memoria oltre 4mila fra militari e «contractor» americani caduti in questi 18 anni di guerra. Per non parlare dell'inopportunità di aprire le porte della residenza di Camp David a un'organizzazione terroristica responsabile del sanguinoso attentato nel cuore di Kabul costato la vita, giovedì scorso, a un soldato americano e ad altre undici persone.
A rendere il tutto ancor più sconveniente s'aggiungeva la concomitanza temporale con le celebrazioni per il 18mo anniversario di un 11 settembre pianificato nell'Afghanistan controllato dai talebani. Ancor più serie erano le incognite di un'intesa largamente sbilanciata a favore degli insorti. Come più volte sottolineato dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton l'intesa raggiunta dall'inviato per l'Afghanistan Zalmay Khalilzad non conteneva alcun garanzia sulla disponibilità talebana a dar vita, dopo il ritiro, a un esecutivo d'unità nazionale con l'attuale governo di Kabul. E anche l'impegno a non ospitare in futuro entità terroristiche come quella Al Qaida che con Osama Bin Laden pianificò dall'Afghanistan gli attacchi dell'11 settembre era alquanto fumoso. Nel Paese è infatti già presente e operativo lo Stato islamico. Un accordo fra talebani e americani avrebbe inevitabilmente portato a un consolidamento delle sue cellule rafforzate dalla prevedibile transumanza di migliaia di irriducibili contrarie a ogni compromesso con gli «infedeli». Per non parlare delle divisioni interne dei talebani che non a caso hanno lasciato trattare l'intesa a quel mullah Baradar che, nonostante il titolo di numero due del movimento, guida un'ala moderata con posizioni non sempre condivise dal leader supremo Haibatullah Akhunzada.
E ancor più preoccupante era il rischio di uno sfaldamento dell'esercito governativo che, complici le diserzioni e gli attacchi dei talebani, avrebbe potuto non sopravvivere all'addio americano resuscitando i sensi di colpa di quel ritiro dal
Vietnam deciso nel gennaio 1973 da Richard Nixon. Un epilogo capace di segnare per sempre anche la presidenza di un Trump arrivato alla Casa Bianca giurando di voler rendere nuovamente grande e invincibile la sua America.
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