«S iediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico». La capacità tattica della Cina è nota da millenni, e non cambierà. Nemmeno dopo la stangata da 60 miliardi di dollari che Donald Trump, sotto forma di dazi, ha rifilato a Pechino. Sanno aspettare, loro. L'Europa un po' meno. Il giubilo per l'esclusione temporanea dalle tariffe punitive su acciaio e alluminio è durato una manciata di ore. Giusto il tempo trascorso prima di ricevere dal tycoon una sorta di cambiale in scadenza: «Entro il 1° maggio va negoziato un accordo, oppure le misure saranno applicate anche a voi». Bruxelles, in risposta, ha chiesto esenzioni «permanenti» e ricordato che «è altamente impossibile affrontare tutte le questioni» in così pochi giorni (Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Ue) e ammonito che «discussioni tra alleati e partner non dovrebbero essere soggette a scadenze artificiali» (Cecilia Malmstroem, commissaria Ue al Commercio); identica la posizione del presidente francese, Emmanuel Macron, e del premier belga, Charles Michel: «Non si tratta con una pistola alla tempia».
Insomma, linea dura. Almeno a parole. La Cina, invece, è pronta a passare all'azione. Ma senza troppo calcare la mano. Per ora. Il Dragone ha infatti annunciato ritorsioni per tre miliardi di dollari su 128 beni statunitensi, con tariffe del 25% sulle importazioni di maiale e del 15% sui tubi in acciaio, frutta e vino. Non è ancora però stato stabilito quando queste misure entreranno in vigore. Pechino non ha fretta, e non deve ingannare la sproporzione - solo apparente - tra le sanzioni decise dalla Casa Bianca e la replica cinese. I tre miliardi sono infatti solo la risposta ai dazi imposti da Trump all'acciaio e all'alluminio del Paese asiatico. Sulla scacchiera del commercio globale la Cina ha quindi mosso solo un primo pedone. Ma, in assenza di un accordo, è pronta a mettere sotto scacco l'America colpendola al cuore con una mossa devastante, come ipotizzato dal suo ambasciatore a Washington, Cui Tiankai: ovvero, tagliare gli acquisti di bond Usa proprio nel momento in cui il Tesoro statunitense, con il debito federale destinato a crescere per effetto della riforma fiscale, ha più bisogno di piazzare obbligazioni a prezzi ragionevoli. «Sicuramente farebbe male alla vita quotidiana dei borghesi americani, delle compagnie americane e dei mercati finanziari», ha detto Tiankai, con chiaro riferimento al fatto che la Cina è il primo detentore di Treasury. Particolare che l'inquilino della Casa Bianca sembra ignorare, visto che non solo non ha abbassato il tiro ma ha annunciano un'azione presso il Wto, l'organizzazione per il commercio mondiale, per denunciare «le pratiche sleali della Cina».
Il clima è reso ancor più teso dalla nomina a consigliere per la sicurezza nazionale di un falco della politica estera come l'ex ambasciatore all'Onu, John Bolton, favorevole a un'azione militare preventiva sia contro l'Iran che la Corea del Nord. I primi effetti non si sono fatti attendere sui mercati petroliferi, con il Brent volato oltre i 70 dollari il barile e il Wti sopra quota 65. Un parziale elemento di sollievo è arrivato grazie alla firma che il presidente ha posto sulla legge di bilancio da 1.300 miliardi, su cui aveva minacciato di porre il veto. «Ho detto al Congresso - ha avvertito Trump - che non firmerò mai più una legge come questa».
Evitato quindi lo shutdown, la paralisi delle attività federali, ma non un altro tonfo di Wall Street (-1,8% in chiusura) dopo la picchiata del 3% di giovedì scorso che ieri ha condizionato le Borse europee, tutte in calo (-0,49% Milano).
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