E ora nella Silicon Valley pensano alla «Calexit»

Gli imprenditori hi-tech californiani vogliono la secessione. E Tim Cook di Apple rassicura i dipendenti

Luciano Gulli

Un mortorio, sul Sunset Boulevard di Hillary Clinton. Un venerdì santo tutto californiano scandito da funerei, rabbiosi slogan anti Trump da cui si leva una vibrante parola d'ordine: andarsene. Filarsela all'inglese. Anzi: come gli inglesi. I sudditi di Sua Maestà si sono regalati la Brexit? I californiani avranno la loro Calexit. Secessione, è l'hashtag di tendenza del giorno.

Gli orfani di Hillary (che nel Golden State ha preso oltre il 61 per cento dei suffragi) avrebbero potuto fare buon viso a cattivo gioco, visto che in fondo il business sarà as usual. Invece ecco prendere quota il movimento «Yes California», una specie di ridicolo dopolavoro ferroviario, quanto a iscritti e simpatizzanti (7800 follower su Twitter) che propone un referendum per uscire dagli States. Non che manchi qualche bel nome, tuttavia, fra i simpatizzanti del movimento. Uno è quello di Shervin Pishevar, americano di origine iraniana e cofondatore di Hyperloop. Pishevar, uno dei più noti capitalisti di ventura della Silicon Valley, intende finanziare «una legittima campagna perchè la California diventi una nazione». I numeri, dice lui, ci sono tutti. E su questo non ha torto. «Come sesta economia del mondo, motore economico del Paese e contributore di un'ampia quota del bilancio federale, la California ha un grande peso», ribadisce. Concedendo che «in seno all'Unione possiamo rientrare dopo, più avanti».

Referendum, dunque. Da tenersi nella primavera del 2019. O forse anche nel 2018, dice il fondatore del movimento, il trentenne Louis Marinelli.

Il fatto è che i capataz della Silicon Valley, affezionati al filo diretto che avevano con Obama, si erano schierati tutti con la candidata democratica, dandola vincente e scommettendo su di lei una valanga di dollari. Trecentotrentacinquemila le erano piovuti in grembo (solo da agosto a ottobre) da Google. L'amministratore delegato di Apple, Tim Cook, ha donato personalmente 50mila dollari, mentre il co-fondatore di Facebook Dustin Moskovitz e sua moglie Cari Tuna hanno recapitato a Hillary un "post" di sostegno da 20 milioni di dollari. Decine e decine di migliaia di dollari, a titolo personale, anche dal fondatore di Linkedin Reid Hoffman, dal Ceo di Airbnb, Brian Chesky, e da Reed Hastings di Netflix.

La crème dell'industria digitale, in una compagnia cantante fatta di attori, attrici, gente dello show biz, afroamericani e latinos sciolti e a pacchetti.

Naturalmente non è una cosa seria. Ma forse non è neppure una baggianata se Tim Cook, ceo di Apple, ha sentito il dovere di inviare una lettera ai dipendenti per rassicurarli sul futuro del Paese e della Apple.

Trump gli sta sugli zebedei, è chiaro (soprattutto da quando ha ventilato l'ipotesi di obbligare la casa di Cupertino a riportare in patria la produzione dei suoi dispositivi). «Ma dobbiamo guardare avanti con fiducia. Facciamolo insieme», ha concluso con un'aria da beccamorto affranto.

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