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E Renzi si ritrova ostaggio del centro di Alfano-Verdini

Dopo la rottura nel Pd, al Senato il governo è sempre più in bilico e gli alleati fanno pesare i loro numeri

E Renzi si ritrova ostaggio del centro di Alfano-Verdini

Se il Pd sembra in crisi di nervi permanente, anche il Centro - nel suo piccolo - si agita.

Ieri, in un'intervista «rubata» (e poi smentita) alla Stampa, Denis Verdini descrive un Pd «ormai finito» dopo lo strappo dei bersaniani sul referendum ed evoca «praterie» elettorali per una formazione di centro che si allei con il partito renziano. Previa, ovviamente, modifica dell'Italicum: «Via il ballottaggio e premio alla coalizione». E siccome al Senato il Pd «non ha i numeri» per cambiare la legge elettorale, «deve trattare con noi e con Alfano». Il leader di Ncd la pensa ovviamente allo stesso modo, e vorrebbe lo stesso tipo di correzioni, anche se sullo sbocco futuro della sua formazione si lascia aperte tutte le porte: cerca di riaprire il dialogo con Silvio Berlusconi e, nell'ultimo libro di Bruno Vespa, spiega che il Cavaliere «può aiutare il Paese a salvarsi da Grillo», e che perciò «andrebbe costituito un rassemblement che impedisca il travaso dei voti moderati verso Renzi e che potrebbe dimezzare la consistenza della Lega».

Che tifino per il Sì, come Verdini o Alfano o Pino Pisicchio (che plaude al fatto che «si è rotto l'incantesimo dell'intangibilità dell'Italicum») o per il No come Paolo Cirino Pomicino, che vuol tornare direttamente al proporzionale stile Prima Repubblica, sta di fatto che la diaspora centrista vede nella legge elettorale varata da Matteo Renzi un pericoloso ostacolo da abbattere, perché - con il premio di maggioranza assegnato alla lista e il secondo turno tra i due primi partiti - uccide in culla le loro speranze di avere peso politico e numerico. Per questo il compromesso trovato all'interno del Pd, con la firma di Gianni Cuperlo, è stato musica per le loro orecchie. Non che un tattico sagace come Verdini si faccia illusioni sulla consistenza di quell'accordo: «Quella bozza non conta niente». Ma si dice certo che la legge elettorale verrà cambiata comunque, «perché sta cambiando lo scenario politico: il Pd si sta spaccando. E per Renzi è necessario mettere in piedi una coalizione con una forza di centro. Noi lavoriamo per questo».

Il premier, in verità, non è granché propenso a stravolgere la legge elettorale, nel caso in cui il Sì prevalesse e lui uscisse vittorioso dal referendum. Soprattutto, e lo ha detto senza giri di parole, pensa che rinunciare al ballottaggio, che assicura un vincitore certo delle elezioni, sarebbe «un grave errore». Ma Renzi è altresì consapevole che alcune altre concessioni (dai collegi al posto delle preferenze, al premio spostato sulla coalizione anziché sul partito) andranno sicuramente discusse. Anche perché dopo il referendum i numeri della maggioranza - a meno di clamorose implosioni nelle opposizioni - cambierebbero poco, e al Senato il premier dovrebbe comunque dipendere dal voto dei centristi. Tanto più che la rottura con la minoranza Pd difficilmente si rimarginerà dopo il 4 dicembre, e il manipolo di pasdaran bersaniani del Senato (una decina) continuerà a imbizzarrirsi in odio a Renzi. Dunque i voti di Alfano e Verdini in parlamento continueranno a pesare: da mesi sono fermi a Palazzo Madama tutti i provvedimenti più spinosi, come quello sulla prescrizione o quello sulla cittadinanza, proprio perché non si è trovato un accordo con Ncd e Ala sul merito. E anche ieri a Palazzo Madama è mancato il numero legale.

Solo dopo il referendum quelle leggi verranno scongelate e sicuramente gli alleati centristi faranno pesare il proprio consenso.

Chiedendo in cambio assicurazioni sul proprio futuro elettorale.

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