Ecco tutti i ricatti di Renzi tra spread, euro e mancette

Mediaset teme ritorsioni e Confindustria tifa per il Sì Il premier adotta la minaccia come strategia politica

Ecco tutti i ricatti di Renzi tra spread, euro e mancette

La logica del ricatto e dell'intimidazione come strategia politica. La campagna referendaria del premier Matteo Renzi e dei suoi sodali è tutta basata su un uso sistematico dei persuasori occulti per convincere l'opinione pubblica di tutti i grandissimi svantaggi che si genererebbero da una prevalenza del No. Una tattica smascherata dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, che ha apertamente dichiarato come Mediaset (della quale resta il principale azionista) non sia allineata alle sue posizioni politiche del fondatore. «Votano Sì perché temono ritorsioni», ha detto. E, d'altronde, il principale gruppo media privato ha di che guardarsi le spalle essendo esposto alle intemperie che legislazioni punitive possono nascondere.

Non meno intimidatorie paiono le parole di colei che ha firmato il ddl di riforma costituzionale, il ministro Maria Elena Boschi. «Se andranno al governo loro, toglieranno gli 80 euro e le cose buone che abbiamo fatto», ha preconizzato qualche giorno ipotizzando maggioranze alternative ed estemporanee in caso di sconfitta del Sì. Vero? Falso? Non si possono più distinguere perché l'unico obiettivo è confondere la platea, convincendola che senza permanenza di Matteo & C. a Palazzo Chigi verranno meno le mance e le mancette di cui sono state infarcite le leggi di bilancio di questi due anni e mezzo.

Ma l'arma di distrazione di massa dal reale contenuto del quesito referendario è sicuramente quella della congiuntura economica. Ha cominciato Confindustria nello scorso luglio preconizzando una nuova Apocalisse con centinaia di migliaia di posti di lavoro persi e di nuovi poveri se vincesse il No. Poi è tornato in auge il mitico spread. E infine ieri ha concluso l'opera Standard & Poor's. «L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una crisi politica in Italia», ha commentato il capo economista Jean-Michel Six spiegando che «ci sarebbe un governo tecnico che porterebbe a elezioni politiche, anche se non è scontato, potrebbe durare a lungo prima di arrivare a nuove elezioni». Inoltre, ha concluso, i mercati sarebbero preoccupati dal fatto che il No «probabilmente ritarderebbe la soluzione dei problemi relativi alle crisi bancarie in atto (Mps in primis)». Il Financial Times si è addirittura spinto a immaginare la fine dell'euro se il Sì non vincesse. Come se Brexit e Trump non avessero insegnato nulla alle Cassandre improvvisate.

Non può non chiamarsi ricatto anche lo slogan «se perde il Sì, vince la Casta» coniato da Renzi in persona. D'altronde chi vorrebbe legittimare il perpetrarsi di certi malcostumi politici che però la riforma non moralizzerebbe di certo. Il problema è che Renzi ha fatto codeste affermazioni dimenticando che la maggior parte dei parlamentari di lungo corso, dei boiardi di Stato e delle «caste» varie (magistrati esclusi) è dalla sua parte. E dunque chi resta in sella e chi è costretto a scendere se il Senato diventa un dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci metropolitani? Nessuno lo spiega, non certo il premier.

Ultimo spettro, ultimo ricatto derivato dai precedenti: l'instabilità. «La fisiologica instabilità italiana produrrà una classe politica aggrappata alla poltrona», ha sottolineato Renzi. Ricominceranno i vecchi giochi di partito, si tornerà alla Prima Repubblica (magari si potesse anche nei fondamentali economici) e nulla sarà più certo.

Strano però che il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, abbia rimarcato e poi parzialmente smentito che «possiamo lavorare su una nuova legge elettorale in breve tempo e andare alle elezioni entro l'estate del 2017». Delle due l'una: o l'instabilità non è e non sarà tale oppure siamo già in un gioco di poltrone. L'importante è ricattare.

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