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La (fragile) tregua in Israele In frantumi il piano dell'Iran

Firmato nella notte sul cessate il fuoco. Ancora minacce incrociate Netanyahu-Hamas: ma l'intesa per ora regge

La (fragile) tregua in Israele In frantumi il piano dell'Iran

Gerusalemme Netanyahu non l'ha chiamata tregua, né «cessate il fuoco». Ha solo ripetuto che gli interessa unicamente la sicurezza della gente. Dopo che la mattina alle 4,30 gli avevano riportato la richiesta di Hamas, perché è stato Ismail Haniye a spedirgli i suoi tramiti, ha detto solo «la campagna non è finita, abbiamo ancora bisogno di pazienza e giudizio». Poi, ha riassunto mentre le scuole ripristinavano le lezioni e i treni verso il Sud riprendevano le corse, che cosa ha fatto l'esercito in questi giorni: distrutti 350 obiettivi, tutti militari (depositi, uffici di Hamas, nidi missilistici), colpiti leader terroristi e i loro attivisti. Una fredda descrizione, senza nessuna retorica, della gelida strategia di contenimento e di deterrenza che ha portato Hamas a chiedere di fermare lo scontro. È stata una campagna che in tre giorni ha bloccato le rampe di missili, senza introdurre sul terreno di Gaza un soldato, senza toccare la popolazione civile vittima a sua volta di Hamas e certamente oggi poco soddisfatta della sua leadership (vedremo nei prossimi giorni). La gente israeliana del Sud, coi suoi quattro morti (giovani, passanti, cittadini, padri di famiglia) con le sue centinaia di feriti, i bambini traumatizzati, la ripetuta esperienza di violenza giorno e notte, non è affatto contenta che Hamas resti al potere, sa bene che certo già si prepara al prossimo match, una manifestazione in piazza chiedeva ieri a Netanyahu di proseguire la guerra. Parte dei cittadini insiste perché l'esercito occupi la Striscia o la si affidi a Abu Mazen che però, e questa è ormai comune percezione, è murato da anni in una comprovata strategia di rifiuto di Israele e di sostegno del terrore. Quindi non c'è che contenere e distogliere, e agire con abilità professionale colpendo ciò che serve alla propria difesa, e questo è quello che ha piegato Hamas, anche se naturalmente risponde a Bibi che: «La resistenza ha piegato l'esercito di Netanyahu» e promette il prossimo round.

La guerra, come ha notato il generale Yaakov Amidror, ex capo dell'Intelligence dell'Esercito ed ex consigliere di Netanyahu per la sicurezza, è stata iniziata da ripetuti lanci di razzi della Jihad islamica: l'organizzazione è totalmente nelle mani dell'Iran, come gli Hezbollah sciiti. L'Iran ha cercato lo scontro per interposta organizzazione locale: così fa anche in Siria, in Irak, in Yemen, in Libano. E poi ha mobilitato anche Hamas, che gode anch'essa dei suoi finanziamenti. Lo scopo, una guerra antisraeliana che gli permetta di navigare nelle attuali difficoltà. Il piano gli avrebbe consentito di seguitare a costruire un confine antisraeliano attrezzato in Siria, dove invece Israele seguita a distruggergli gli avamposti e le fabbriche d'armi. In secondo luogo, questo avrebbe creato una zona di deterrenza contro gli Usa, che agiscono duramente contro gli ayatollah e minacciano guerra: il consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton ha annunciato che la portaerei Abramo Lincoln sta dirigendosi verso il golfo Persico dal Mediterraneo e, con essa, aerei bombardieri caccia. Il mese scorso le «Guardie della Rivoluzione» sono state dichiarate «organizzazione terroristica» e i rinvii delle sanzioni a otto stati sull'acquisto del petrolio iraniano sono stati revocati con enorme danno dell'economia iraniana.

L'Iran ha sempre contato molto sulla sua bandiera genocida antisraeliana, e per questo finanzia Hamas e la Jihad islamica. Questa è la situazione che probabilmente il gabinetto ha discusso prima che Netanyahu ha probabilmente discusso prima di annunciare che l'unica cosa importante è la sicurezza della popolazione.

Un obiettivo modesto? No: una sfida mondiale, una sciarada che solo un'indomabile determinazione alla sopravvivenza riesce a superare giorno dopo giorno.

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