Matteo Renzi è dall'altra parte dell'Atlantico, e promette che «faremo di tutto per cambiare l'Italia, mercato del lavoro compreso». A Roma la minoranza Pd cerca di usare la sua assenza per preparare le trincee in vista dello scontro finale in Direzione, il 29 settembre. A richiamarli bruscamente all'ordine ci pensa il braccio destro del premier Luca Lotti, che invita i frondisti a non ballare con troppo entusiasmo, perché poi il gatto torna: «Ricordo che il segretario del Pd è stato scelto con le primarie sulla base di un programma chiaro. Qualcun altro ha perso le primarie e ora non solo pensa di dettare la linea ma lo fa prima ancora che si svolga una discussione nei luoghi preposti».
Nel fronte anti-renziano si susseguono riunioni e assemblee a ritmo frenetico, per preparare gli emendamenti (linea del Piave, il ritorno dell'articolo 18 dopo i primi tre anni di contratto) ma soprattutto per trovare una compattezza interna che è assai meno granitica di quanto si vorrebbe far pensare nella miriade di sigle che lo compongono: bersaniani, bindiani, cuperliani, civatiani, fino ad alcuni lettiani. Basti vedere come sono lontane le posizioni su uno strumento di battaglia come il referendum tra gli iscritti, lanciato dal fantasioso Pippo Civati: «Andiamo a chiedere alla nostra base cosa pensa dell'articolo 18», è la sua proposta. «Una cazzata», la liquida però un esponente cuperliano, «su che domanda vuole farlo questo referendum? E con che regole, visto che lo statuto ancora non le prevede? Rischiamo di fare l'ennesimo favore a Renzi». Tant'è che sono proprio i renziani a cogliere la palla al balzo. Il più bellicoso è Roberto Giachetti, che da tempo invita il premier a cercare un redde rationem elettorale per liberarsi di chi gli rema contro: «Se proprio volete un referendum facciamolo con gli elettori. È l'unico che conta, lo dico da tempo: Mattarellum e poi al voto». E un esponente renziano del governo rilancia: «Ha ragione Giachetti: non tanto sulle elezioni, quanto sull'idea di fare una consultazione sul Jobs Act aperta a tutti. Come le primarie». Chiaro l'intento: se un referendum interno alla base del Pd rischia di veder prevalere il no ad una drastica modifica dell'articolo 18, un sondaggio allargato agli elettori ribalterebbe gli esiti.
A complicare le cose, per la minoranza Pd (e per la Cgil), è arrivato ieri anche un chiaro messaggio di Napolitano: le riforme vanno fatte, «l'Italia non sia prigioniera di conservatorismi e corporativismi». Sebbene il malumore contro il capo dello Stato sia forte, nella sinistra Pd, ammutinarsi esplicitamente ai suoi voleri è difficile. E infatti pezzi importanti della minoranza (il capogruppo alla Camera, il bersaniano Roberto Speranza, i membri della nuova segreteria, i Giovani Turchi) frenano assai sulle velleità di rottura dei più esasperati anti-renziani, come Stefano Fassina o Alfredo D'Attorre e danno per scontato che alla fine si voterà il Jobs Act del governo. E ieri, in uno dei tanti brain-storming della minoranza, anche Cuperlo ha posto la domanda clou, smarcandosi dall'ala dura: «Possiamo incalzarlo e anche contestarne singole scelte che non condividiamo, ma Renzi è il segretario del Pd, cioè del nostro partito. Se si arriva allo scontro finale, poi cosa si fa? Si rompe del tutto?». L'ex sfidante alle primarie, pur duro sulla linea politica renziana, non ci sta a dichiarare guerra totale, e tanto meno a ipotizzare scissioni.
Peraltro, anche in casa Cgil la linea anti-governo è tutt'altro che granitica: nella sinistra Pd si racconta di una spaccatura tra la Camusso e Carla Cantone, leader dei pensionati, che non condivide lo scontro frontale con Renzi, ad esempio sul contratto dei «privilegiati» della Pubblica amministrazione. Un bel problema per la leader della Cgil, che senza le truppe dello Spi si può scordare di riempire le piazze.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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